mercoledì 27 luglio 2011

RassegnArte -di mercoledì 27 luglio 2010

Medardo Rosso alla Galleria Porro di Milano

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E' visibile fino al 29 luglio alla galleria Porro di Milano una piccola e ben curata mostra su Medardo Rosso, allestita da Paola Mola, tra i maggiori studiosi dell'artista, già curatrice, insieme a Fabio Vittucci, del catalogo sull'intera opera di Medardo Rosso nel 2009 e ora autrice del catalogo della mostra. E' la prima volta, dal 1946, che opere di Medardo Rosso vengono esposte in spazi privati, propio per la difficoltà a reperire le rare opere dell'artista dai musei. Oltre a contare su opere come "La femme à la voilette " o "L'enfant a la bouchèe ", in mostra compare l'unico esemplare in bronzo della "Petite rieuse " creduta perduta dopo una mostra a Lipsia nel 1912. Inoltre vi sono tre disegni inediti della collezione già Sommaruga e due foto con una rielaborazione fotografica. Quest'ultimo è un aspetto molto importante documentato dalla mostra, vale a dire le particolari modalità - e l'importanza - dell'utilizzo delle lastre fotografiche da parte dell'artista per giungere a quegli effetti luministici quasi magmatici. Di seguito, vi propongo un articolo di Rinaldo Censi focalizzato su questa caratteristica di Medardo Rosso e un link sulla mostra.
Vince
Andrea Porro arte moderna e contemporanea, C.so Monforte, 23 Milano, fino al 29 luglio, Orari lun-mar h. 9.30-13.30 e 15.30-19.30, sab solo su appuntamento, chiuso la domenica, ingresso gratuito

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Le forme mutanti e aliene di Medardo Rosso
Lungo un percorso scandito dall'idea di serie, l 'artista ha realizzato cere, gessi, bronzi. Materia comunque brulicante, in uno stato di continua metamorfosi

 
Quando nel 1823 pubblica il Saggio sulla natura, il fine e i mezzi dell'imitazione nelle belle arti , Quatremère de Quincy è già un fossile di sessantotto anni, ma detterà legge per altri ventisei: una specie di papa introdotto in ogni anfratto del potere. Il problema è quello dell'imitazione. È la questione cardine che ruota attorno al bel saggio di Jean-Claude Lebensztejn, dedicato appunto all'Essai di Quatremère ( Dell'imitazione nelle belle arti , Solfanelli 2008). L'arte (ciò che imita) è per essenza in difetto in rapporto alla natura (ciò che viene imitato). Il problema sta proprio qui, sostiene Quatremère, nel voler annullare la distanza tra l'immagine e il modello: l'imitazione appunto, colta nella sua essenza. Quatremère espone qui, in bella vista, un'ovvietà semiotica, che emerge nel suo Essai come pietra angolare. Alcuni esempi: ai dipinti mancherebbe il rilievo, alla scultura il colore e lo sfondo. Insomma, alle arti mancano la vita, il movimento, la sensibilità. Come ovviare a questa mancanza? Compensandola attraverso la perfezione , ciò che ci risarcisce da una mancanza. Sono argomenti certo risaputi. I romantici (Géricault, ad esempio) faranno piazza pulita di queste teorie. Quatremère de Quincy forse non avrebbe apprezzato The Thing , il remake di John Carpenter (1982). Nondimeno, in gioco, rientrano questioni piuttosto simili. La perfezione, ad esempio. Nel film di Carpenter un essere alieno tenta infatti di imitare sempre più precisamente (alla perfezione ) gli esseri umani (l'operazione avviene per gradi, in primis si presenta sotto le spoglie di un cane da slitta...), allo scopo di attuare un attacco alla terra, sostituendo l'intera popolazione. Pur nel biancore della neve del Polo, il film di Carpenter è estremamente cupo, aperto e chiuso da scenografie di rovine, devastate dalle fiamme: due uomini attendono la loro ora, impassibili (uno dei due sarà l'alieno?). Pensavo a tutto questo di fronte ad alcune opere scelte di Medardo Rosso presso la Galleria Amedeo Porro, a Milano (questo è anche il titolo del bel volume curato da Paola Mola, infaticabile studiosa di Rosso - Rosso. Opere scelte , Skira/Amedeo Porro 2011). È soprattutto davanti a Femme à la violette (1895), qui in una cera su gesso del 1919-23, dal modello del 1895, che ho associato queste forme in formazione, instabili, questa massa brulicante e intrattabile in cui un volto, i suoi lineamenti, fanno capolino, magnifici, lisci, distesi, mentre tutt'intorno si muove l'inferno, alla Cosa del film di Carpenter. Anche qui un alieno lavora ad una forma: ne testa la malleabilità, ne studia la composizione, cerca di trovare una perfezione, che però un millesimo di secondo dopo è già svanita, perduta in un turbinio di liquido viscoso: la cera. È un fiore che si schiude, simile a miele colloso ormai rappreso, bloccato in un arresto di immagine, in uno stato di metamorfosi (il dettaglio fotografico della Femme à la violette sul catalogo leva il fiato: una forma immaginaria, energia che arriva da un'altra galassia). Prendete L'Enfant à la Bouchée de pain (gesso patinato, 1897-1900 circa), o La portinaia (gesso patinato, 1883). Si riesce a captare un'attività della materia che lascia presagire un principio di coagulazione in una forma che potremmo definire pre-anatomica: fisiologia sperimentale, incandescente. O il suo contrario: una minacciosa «fuga», una colata di materia in disgelo, inesorabilmente fissata dal tempo. I due Sagrestani (gesso dipinto, circa 1887 - gesso, 1883) non sono da meno, quasi fuori equilibrio, come sgonfiati. Modello originale, modello per le fusioni: la serie dell' Enfant pone seri problemi filologici e di datazione (che il volume tratta egregiamente, servendosi anche di una serie di esami tomografici), che qui non toccheremo, limitandoci a segnalare come in Rosso emerga l'idea di un percorso costellato dall'idea di serie : dalla cera alla maschera in bronzo all'elaborazione fotografica (sottolinea Paola Mola). Fascino dei calchi: gessi, cere, bronzi, modelli originali, modelli per fusione, fotografie (ma anche disegni), stampe di dettagli a contatto, ingrandimenti, ritagli sgembi, fotomontaggi (magnifico quello esposto, con L'Enfant incollato all'interno di un accrochage della sala del Salon d'Automne , 1904), aristotipi (celloidina/carta al collodio, carta al citrato/carta alla gelatina): perdita della forma, materia che si disfa minacciosa, viscosa, a volte trasparente, o colloidale. Prendete la Bambina di Lipsia, la Petite Rieuse , qui in un bronzo del 1902 (primo esemplare del 1889, probabilmente in terracotta, tradotto in cera tra il 1895 e il 1900, modificato in seguito e ridotto, eliminando il busto). Prendete La ruffiana (bronzo, 1889). Quelle risate infantili ricordano forse le isteriche del dottor Charcot, un corpo mutante, il ritratto di una patologia psichica; un volto che oscilla tra l'estasi e un'insopprimibile risata. La malattia appartiene al campo estetico? E nelle fotografie della Petite Rieuse la forma sfuma, si perde in un alone di vapore, un velo del bagno chimico, come se la massa degradasse, perdesse compattezza, oppure volesse migrare, spostarsi, pronta dissolversi, a schizzar via come il sangue alieno a contatto con l'ago incandescente nel film di Carpenter. Se parlavamo di serie è per azzardare e sostenere che la sfera artistica di Rosso, come per Marcel Duchamp, rientri pienamente sotto l'autorità del paradigma fotografico. Forse. Dopotutto è impossibile parlare dell'opera di Rosso senza segnalare «l'incidenza specifica dell'industrializzazione sulla pratica tradizionale dei pittori», senza ricordare l'invenzione della fotografia e «le condizioni enunciative dell'arte "nell'era della sua riproducibilità tecnica"», come ricorda un autorevole studioso di Duchamp, Thierry de Duve. Eppure, c'è in Rosso qualcosa che eccede la semplice causalità storica legata alla «riproducibilità». Carrà sosteneva che in Rosso «l'empito del creare si era in lui spento in seguito a una terribile caduta in tram». Oppure, come voleva la vulgata, Rosso aveva terminato la sua vena nel 1900, facendo poco o nulla fino al '28, se non curare nuove edizioni delle sue opere, senza più crearne di originali. Perciò, la domanda è - come segnala Paola Mola in Rosso. Trasferimenti (Skira 2006) - «se dopo quanto abbiamo visto sul campo delle arti dalla metà del Novecento, dopo Beuys e la Pop, il minimalismo, il dominio della riproduzione fotografica e filmica, analogica e digitale, sia ancora ragionevole fare di Rosso l'eccezione cui riservare una strumentazione critica archiviata, dove l'originalità si misura solo in relazione al vero e alla natura, e la creatività si mantiene circoscritta dentro i mezzi della tradizione ottocentesca». La risposta è: no. Per questo, lasciamo il fossile Quatremère e i suoi sodali alle loro beghe su ideale e perfezione. E lasciamo Carrà e anche gli alieni di Carpenter con la loro furia imitativa (somiglianza per eccesso). L'unico alieno è Rosso. Ci sono artisti che gettano un occhio sulla tela, mezzo sulla tavolozza, e dieci sul modello, ricordava Kandinsky. Che, invece, faceva l'esatto contrario: dieci colpi d'occhio sulla tela, uno sulla tavolozza, e mezzo sul modello. Rosso, da parte sua, per il resto della sua vita lavorerà al chiuso, tra reagenti chimici, modelli (matrici?) per fusione, calchi, gessi, cere. In pura perdita, con inconfondibile sprezzatura : l'arte cioè di fare le cose senza dargli un prezzo, magari giusto per sentire l'estasi della materia, colta in un istante senza gravità, in fluttuazione. Una sorta di antivalore , giusto per il piacere di dare vita e risonanza alle forme, enunciare l'instabilità della figura umana, fino a perturbarla.
di Rinaldo Censi da Il Manifesto di martedì 26 luglio
Sulle caratteristiche della mostra, è utile il seguente link http://www.bta.it/txt/a0/06/bta00608.html 

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