lunedì 1 agosto 2011

Viaggi. I nuovi racconti di Rumiz: inseguendo i luoghi perduti

Una mappa dei luoghi perduti attraverso gli itinerari di Paolo Rumiz

Rincomincia sulle pagine della rubrica di R2 di Repubblica i resoconti dei viaggi del giornalista. Questa volta, Rumiz ci conduce sulle tracce dei luoghi più improbabili della nostra penisola e non solo, quali "rocche abbandonate, fabbriche arruginite, paesaggi dimenticati ", come la prima tappa di questo itinerario, a Montevergine (Avellino), ex base Nato smantellata e caraterizzata da una foresta di antenne, ripetitori, impianti trasmettitori che nel loro insieme ricordano la visione sbucata improvvisamente dall'episodio di una fiaba oscura. Paolo Rumiz è un noto giornalista di Repubblica, già reporter durante il conflitto jugoslavo, nell'ultimo decennio ha sviluppato un giornalismo di viaggio alternativo, basato sugli itinerari che sappiano riflettere contenuti inerenti al nostro passato e sui luoghi meno considerati dal turismo ufficiale che riconducano all'essenza di "quel " territorio e dei loro abitanti, fatto di movimenti lenti e sguardi profondi. Il suo riflette un viaggiare consapevole del terreno che si calpesta, capace di restituire non solo l'autenticità di situazioni storiche e culturali e un modo di guardare al "territorio " nell'accezione più ampia del significato, più completa, con uno sguardo e parole che sanno legare il paesaggio alla storia e al sapere locale e alle sue radici, contro il modo di viaggiare e di guardare, frettoloso e superficiale, indifferente alle comunità che abitano i propi luoghi proposto nei nostri giorni.  
La prima puntata è iniziata ieri e si dipanerà quotidianamente fino al 26 di agosto. Di seguito vi propongo uno stralcio dal primo reportage e un video. Buona lettura.
Vince


 Video - intervista a Paolo Rumiz tratto da You tube

Dove si racconta quando, come e perché è nata l'idea di questo viaggio e della "mappa dei luoghi perduti" che lo ha reso possibile. E si irrompe nel primo di questi luoghi, l'ex base Nato di Montevergine, in Campania: una selva di torri di metallo abbandonate, non segni di una civiltà estinta ma resti parlanti del nostro secolo

Il temporale stava arrivando e noi ci eravamo persi in un labirinto di strade sterrate. Bisognava fare in fretta perché la cima del Monte Partenio – un complicato saliscendi coperto di selve - si stava trasformando in acchiappafulmini. Eravamo già sul punto di scappare quando, in cima a una salita, a quota 1200, vedemmo un cancello arrugginito cigolare nel vento. Andammo a vedere e restammo senza fiato. Oltre quel portale semiaperto iniziava una strada in discesa con doppio guard-rail. E lì in fondo, tra le nubi al galoppo, c'era una spianata aperta sul nulla, coperta di enormi, nude piattaforme di cemento e strani muretti semicircolari.

Sembrava il cerchio del sole di Stonehenge, un tempio incaico per sacrifici umani. Invece era l'ex base Nato di Montevergine, il nido smantellato dei radar della Sesta Flotta, l'occhio dell'America sul Mediterraneo. Esattamente quello che cercavamo. Nemmeno Marco, che era del posto, c'era mai arrivato ed era, come noi, senza parole. Gli americani avevano portato via tutti i loro impianti, e il luogo, riconsegnato alla natura, aveva assunto una forza preistorica, quasi minerale. Verso ovest, tra gli squarci di nebbia, oltre il querceto nella tempesta, comparivano la piana di Nola e la Valle Caudina. Napoli era invisibile nella pioggia.

Fu allora che venne la fatamorgana. Tra un sipario e l'altro di nubi comparve una cresta dentata come di stegosauro, e poi un'altra ancora. Erano colline irte di antenne, parevano le guglie del duomo di Milano, e in quel clima da poltergeist – stava grandinando - la cresta del Partenio, con i suoi luoghi sacri in contatto da millenni con la Dea Madre, ora si svelava coperta di una foresta pluviale di ripetitori, attivi o dismessi. Una montagna di ferro e ruggine dove il rapporto col cielo continuava sotto forma di una tempesta elettromagnetica che additava un'ombra terribile sopra di noi.

Non avremmo potuto scoprire quel luogo in un momento più fantasmagorico. La base Nato era vuota, ma il resto delle antenne estinte era lì, tra le nubi, con ancora appesa la targa dell'esercito, della polizia, delle poste o di varie televisioni. Ci si aprì un mondo. Torri di metallo abbandonate da non più di dieci anni friggevano nel temporale come gabbie di Faraday. Una montagna di ferri contorti come ramponi sulla gobba di un capodoglio friggeva nel temporale e urlava verso il cielo chissà quale messaggio. E noi ci arrampicammo nel labirinto, passammo liberamente vertiginosi ballatoi, sentimmo il vento sibilare in vecchie strutture paraboliche, oltrepassammo squarci di filo spinato, calpestammo piattaforme di cemento coperte di muschio e vetri rotti, sfiorammo pannelli elettronici spolpati dai vandali, passammo sotto torrette di guardia perfettamente vuote e indecifrabili totem d'acciaio. Non erano segni di una civiltà estinta ma resti parlanti del nostro secolo.

                                                            *    *    *
Fu allora che pensai alla prima volta in cui avevo sentito delle presenze in una rovina abitata dal vento. Era successo in Grecia nel 2004. Ero solo, e non so cosa mi avesse preso di bivaccare sui faraglioni di Zante, nella chiesa di Aghios Andreas semidistrutta da un terremoto negli anni Cinquanta. C'era solo un cartello stinto di legno a indicarla, ma egualmente ero sceso a piedi per un sentiero da capre. Alcune edicole con piccole icone e lumini punteggiavano la strada nel tramonto. Portavano nomi di santi – Elia, Dionisio, Dimitri o Maria – che nascondevano malamente gli dèi che li avevano preceduti. Forse per questo richiamo pagano ero stato attratto dal luogo. Le pietre appese al precipizio mi parlavano.

Tirava vento, l'ultimo sole affondava in un mare omerico “color del vino” illuminando il Santissimo oltre i resti dell'iconostasi, e io avevo pensato di godermi quelle magnifiche rovine nella certezza di una pace assoluta. Avevo tirato fuori dal sacco pomodori, pane e formaggio greco, ci avevo aggiunto capperi selvatici cresciuti su un muretto sbilenco, e dopo un sorso di retsina mi ero messo ad aspettare il silenzio. Ma il silenzio non veniva. Era una notte dannatamente animata. Grilli, cani lontani, asini, capre, fruscii nella boscaglia. E poi quella densità pazzesca di oscuri dei-guardiani infrattati come fauni tra i corbezzoli e i ginepri.

Verso mezzanotte mi accorsi che un San Basilio mi guardava in silenzio. La luna era sorta dalla montagna e attraverso il tetto sfondato del monastero illuminava un affresco pieno di santi. Dal mio sacco a pelo vidi una processione uscire dal buio e farsi strada verso l'uscita. Eusebio, Timoteo, Giovanni Crisostomo e altri andavano sotto le stelle verso il portale aperto sullo Jonio immenso e nero. L'ultimo era Basilio, che roteava gli occhi infossati. La luna aveva ridato colore all'affresco sbiadito dalle intemperie, e i gerarchi erano là, terribili, schierati come i dignitari di Bisanzio nel mosaico di Sant'Apollinare a Ravenna.

Non avrei mai più visto una notte simile. Presi freneticamente appunti fino all'alba. Scrissi: “Mantide religiosa, un geco che tenta di prenderla. Geco che batte in ritirata, lancia il suo sordo richiamo. Colonna di formiche illuminata dalla luna. Brucare di capre. Cane color del miele entra nella chiesa, mi annusa, poi mi si accuccia vicino e si fa carezzare”. E ancora: “Vento sibila tra le pietre come un'arpa eolica. I santi tornano nel buio. Luna scende a perpendicolo nello Jonio color zinco. Dormiveglia con litanie e parole greche antiche, Anthropos, Ouranòs. Primi galli sulla montagna, scricchiolio delle pietre all'alba”. Le vecchie pietre parlavano, ne ero sicuro. Non occorreva che fossero abbandonate da secoli. Pochi anni bastavano per instaurare un rapporto. Era sufficiente che il vento ne diventasse inquilino.
di Paolo Rumiz,  "Le case degli spiriti ", in R2 di Repubblica del 31 luglio 2011










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