martedì 1 novembre 2011

lezione sui musei, sezione didattica museale, allestimento, mostre...

Sotto all'immagine troverete i link delle lezioni sul museo.

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjfItBmoR8HjhFuhhVqWyNX3wxVhCBCBIqr2CNaL7xADkMRsFPaQslQP4TFF3z65hwz3HJIgUpBrI3QWh6wDrjwMtHKJKhzxoXl06ntdHTlBJYEusQFO2Q62AN-GAaLXg4mZOJ9_5wip24J/s1600/arengario_milano.jpg

Questi sono i tre link: 1)didattica, musei,allestimeno, mostre;   2)museo;   3)archeologia

cliccandoli sarete rinviati ai pdf da visionare e scaricare!  Vi ho rimesso anche le pagine sull'archeologia per chi ha avuto avuto problemi.
Buon lavoro!

Prof.

Nicola Emery, Distruzione e progetto. L'architettura promessa.

Un libro per comprendere un altro aspetto della crisi della nostra epoca.

http://www.marini.biz/articoli_img/fiera_madonnino_2822.jpg

In questi giorni è uscito il libreria un testo sull'architettura attraverso il quale si vuole parlare della crisi della nostra epoca (Nicola Emery, Distruzione e progetto, Edizioni Marinotti, pp. 317, euro 29.00). Per illustrare questo libro mi servo della bella recensione di Raoul Bruni apparsa sul supplemento de il manifesto "Alias" del 29 ottobre. Emery sottolinea come, a partire dall'inizio del secolo scorso, il progetto architettonico, alleandosi con le forze economiche, abbia contribuito a stravolgere l'ambiente e la sua morfologia. L'architettura moderna, secondo l'autore, a partire daglii inizi del '900, ha fatto proprio uno degli assunti della modernità, secondo la quale la techne, da mezzo è divenuto fine, smarrendo ogni senso del limite, dove l'uomo perdendo il senso delle finalità dei mezzi impiegati, perde la capacità di impiegarli per se stesso, finendo quindi asservito ad essi. Secondo Raoul Bruni, il fatto che Emery abbia voluto sottolineare come già Marx avesse avvertito tale pericolo, risulta strumentale al pensiero del filosofo tedesco, in quanto "...ritiene che le problematiche che funestano l'etica dell'architettura, trasformando quest'ultima in strumento di distruzione, siano intrinsecamente collegate all'invasività dell'economia del tecno-capitalismo contemporaneo". La filosofia della distruzione creatrice sembra essere intrinseca a quel capitalismo che trae vantaggio da ogni crisi per cambiare e rigenerarsi dall'interno, distruggendo e ricreando senza tregua nuove strutture e valori economici. Emery nota come in ambito economico siano stata seguiti i medesimi passi, vale a dire la necessità di una negazione del passato, delle strutture preesistenti perchè possa realizzarsi il progetto, la costruzione, citando, tra i tanti, i nomi di Le Corbusier e Rem Koolhaas. 
Emery propone allora l'adozione di una via alternativa a tale processo distruttivo, che abbia al centro la prudenza e la saggezza come argine al devastante sfruttamento attuato anche con il concorso della moderna progettualità architettonica. Egli indica quindi alcuni esempi tratti dal Novecento, come Rudolph Schwarz e i suoi progetti improntati ad una sorta di moralità architettonica, indipendente dalle imposizioni della  techne, oppure di Kurt Schwitters e sulle sue idee di riutilizzo e reimpiego di materiali di scarto, vale a dire su un concetto di architettura più modesta e rispettosa, di attenta trasformazione dell'esistente rispetto alla radicale progettualità ex novo della modernità.
Vi lascio due link interessanti, un'intervista e una prossima presentazione del libro, per chi fosse interessato al tema poichè non è possibile rimandarvi direttamente alla Rete per la recensione di Raoul Bruni.

Vince 

domenica 30 ottobre 2011

Susan George su finanza globale e Global warming

Vi propongo la lettura di questo bellissimo articolo di Susan George

E' un articolo da leggere perchè illustra con rara semplicità e chiarezza ciò che ci è stato rovesciato addosso e indica nuove strade per pensare ad un mondo per tutti. Cerco di riassumerlo brevemente e vi lascio il link per leggere nella sua interezza l'articolo apparso su il manifesto di giovedì 27 ottobre.

Susan George immagina che il mondo sia governato da cerchi concentrici o sfere di potere. La finanza globalizzata è quello più potente ed è il più esterno: quello che manda avanti il mondo e per cui i governi stanno versando montagne di denaro per tenere a galla chi ingoia e gioca con i nostri soldi, senza chiedere nulla in cambio. Il successivo cerchio è quello dell'economia reale, dove investiamo, produciamo, distribuiamo e consumiamo beni reali. Nel quale il lavoratore è sfruttato dagli industriali che detengono il surplus prodotto ma, ora, sostituito dalle rendite finanziare che danno più lauti guadagni e licenziano i lavoratori. Nel terzo circolo di potere è la società e quindi i governi, che devono obbedire alla finanza e all'economia e sono sempre più indebitati per salvare le banche, e che adesso pagano alla finanza la conseguenza del loro indebitamento. Lultimo cerchio è quello dell'ambiente, il più limitato dei tre. 
L'autrice propone di cambiare l'ordine dei cerchi: quello più importante deve essere quello della biosfere perchè gli scienziati dicono che, se non si agirà presto, la questione sarà se la nostra specie potrà sopravvivere a quanto si sta delineando con il Global warming. Il secondo cerchio dovrebbe essere quello della società, democratica, dove il popolo è alla base dei governi e a lui rispondano. Il terzo cerchio sarebbe quello dellla vera economia, dove sono gli investimenti nel lavoro, scuola, salute e quindi, alti livelli di spesa pubblica. Qui vi sono indicazioni interessanti, per esempio sulla necessità di socializzare le banche, poichè esse devono essere parte del network pubblico e investire in un economia sostenibile, la BCE come erogatrice di prestiti direttamente ai governi, ecc. Susan George ci incita a non vergognarci a proporre cose diverse e rivoluzionarie poichè "finora sono stati ricompensati i colpevoli e puniti gli innocenti. E' arrivato il momento di capovolgere le cose". 
Vi lascio un ulteriore link, sul caso islandese, come esempio su come sia possibile non pagare il debito. L'articolo è di Marco Benedettelli, tratto da D la Repubblica del 29 Ottobre. 

Vince   

domenica 16 ottobre 2011

Una grande mostra a Roma per un'artista dell'avanguardia russa

Un grande fotografo: Alexander Rodchenko

http://www.conlafotografia.com/wordpress2/wp-content/uploads/alexander-rodchenko-1.jpg

Si apre a Roma, parallelamente ad una grande esposizione intorno Realismo russo, un'importante mostra fotografica, al Palazzo delle Esposizioni sul grande esponente dell'Avanguardia russa, Aleksandr Rodchenko che, con i suoi fotomontaggi e grazie agli innovativi tagli prospettici adottati nelle propie foto, ha radicalmente rinnovato lo stile, non solo fotografico ma anche della grafica occidentale, della prima metà del secolo XIX.
Per le informazioni su costo del biglietto, orari ed esposizione, vi propongo due link (Link 1; Link 2) e due video, uno tratto da You Tube e l'altro dal quotidiano inglese "The Guardian" per chi fosse interessato a conoscere questo straordinario artista. Inoltre, A3 di Radio 3 Rai ha dedicato una bella puntata a questa mostra e vi consiglio di ascoltarla nel podcast della trasmissione.




Vince

...Sulle manifestazioni del 15 ottobre

Una serie di motivi per il nostro diritto/dovere a protestare contro il sistema neoliberista

http://loschizzo.files.wordpress.com/2011/10/immagine2.jpg?w=588&h=307
Vi riporto un bell'articolo tratto da "il  manifesto" del 15 ottobre di scritto da Slavoj Zizeck e pronunciato ai manifestanti di Zuccotti Park a New York: è tutto da leggere!

Il comunismo che vogliamo? I beni comuni

 Il tabù è stato infranto, non viviamo nel migliore dei mondi possibili, abbiamo il permesso, persino l'obbligo di considerare delle alternative. La strada davanti a noi è lunga, e presto dovremmo confrontarci con le domande veramente difficili - domande che riguardano non quello che non vogliamo, ma quello che vogliamo. Quale tipo di organizzazione sociale può prendere il posto dell'attuale capitalismo? Di quale nuovo leader abbiamo bisogno?
(...) Diranno che siamo violenti, che il nostro linguaggio, l'occupazione stessa, sono violenti... Sì siamo violenti, ma come lo era il Mahatma Gandhi. Siamo violenti perché vogliamo fermare l'attuale corso delle cose - ma cos'è una violenza puramente simbolica quando paragonata alla violenza necessaria per sostenere il funzionamento indisturbato del sistema capitalistico globale?
Ci hanno chiamato perdenti. Ma i veri perdenti non sono quelli che a Wall Street hanno dovuto essere soccorsi da centinaia di miliardi di denaro vostro? Vi chiamano socialisti - ma in Usa c'è già un socialismo, per i ricchi. Vi diranno che non rispettate la proprietà privata. Ma le speculazioni di Wall Street che hanno portato al crash del 2008 hanno eliminato più proprietà privata di quella che potremmo distruggere noi se ci mettessimo, tutti insieme, giorno e notte. Pensate alle migliaia di case confiscate...
Non siamo comunisti, se per comunismo si intende il sistema giustamente collassato nel 1990 - basta ricordare che i comunisti ancora al potere tengono le redini del capitalismo più spietato. Anzi, il successo del capitalismo gestito dai comunisti in Cina è proprio il segno incombente di come il matrimonio tra capitalismo e democrazia sia sulla strada del divorzio. L'unico senso in cui siamo comunisti è che teniamo ai beni comuni - della natura e della conoscenza - minacciati dal sistema.
Vi diranno che state sognando, ma i veri sognatori sono coloro che pensano che le cose possono andare avanti indefinitamente come sono, con qualche cambiamento di superficie. Non siamo dei sognatori, ma rappresentiamo il risveglio da un sogno che si sta trasformando in incubo. Non distruggiamo nulla, ma siamo i testimoni di come il sistema si stia gradualmente distruggendo. (...) Ma il cambiamento è veramente possibile ? Il possibile e l'impossibile, oggi, sono distribuiti in modo strano. Nei domini delle libertà individuali e della tecnologia scientifica, l'impossibile sta diventando gradualmente sempre più possibile (o così ci dicono). «Nulla è impossibile»: possiamo goderci il sesso nelle sue versioni più perverse; possiamo fare il download di interi archivi di musica, film e serie tv; chiunque abbia i soldi può viaggiare nello spazio; possiamo aumentare le nostre capacità fisiche e psichiche intervenendo sul genoma... Fino al sogno tecno-agnostico di diventare immortali trasformando la nostra identità in un programma di software. Ma nei domini delle relazioni sociali ed economiche siamo costantemente bombardati da «Non si può»... Non si può impegnarsi in gesti politici collettivi (perché portano inevitabilmente allo spettro del totalitarismo), o difendere il vecchio Stato sociale (perché ci rende non competitivi e porta alla crisi economica). Oppure ci dicono semplicemente che «bisogna fare così». Forse è venuto il momento di capovolgere le coordinate di quello che è possibile e impossibile. Forse non possiamo diventare immortali ma possiamo ottenere più solidarietà reciproca, e l'assistenza sanitaria.

tratto dall'articolo di slavoj zizeck da "il manifesto" del 15 ottobre 2011

lunedì 3 ottobre 2011

Pagine sulle lezioni di Archeologia 1

Archeologia 1

Ecco a voi le pagine delle lezioni sull'archeologia da scaricare e studiare (pp. 16-21). Alcune parti non le abbiamo ancora trattate insieme e le faremo quindi in seguito. Quando sarete in possesso di queste pagine vi indicherò quali paragrafi sono da studiare.
Buon lavoro.

Prof. Cavallaro








 da E.Bernini, C.Casoli, Arte in campo, ed. Laterza, Bari 2003, pp.16-21.



martedì 20 settembre 2011

Musei aperti e tante iniziative culturali a Milano

La città culturale batte un colpo con una nutrita serie di iniziative da martedì 20 a domenica 25/9



Da domani, 20 settembre, a domenica, con ingressi gratuiti e fuori orario, dalle 18.00 alle 22.00 si apre  la prima delle due rassegne che ravviveranno la Milano culturale e museale. Il Fondo Ambiente Italiano e Navigli Lombardi, grazie ai fondi concessi da Unicredit e Fondazione Rotary daranno vita a Musei aperti alla città, con la quale sarà possibile visitare gratuitamente nella fascia oraria serale una coppia di musei alla volta: martedì il celeberrimo Museo del Novecento e il Museo Diocesano in Sant'Eustorgio, mercoledì il Museo Bagatti Valsecchi e il Poldi Pezzoli e poi, giovedì la Galleria d'Arte Moderna (GAM) e la Pinacoteca Ambrosiana. La seconda rassegna, Fai il pieno di cultura è estremamente ricca e ampia poichè si spazia fra le iniziative più diverse in luoghi differenti. ad esempio, l'Open Day del Museo della scienza e della tecnologia, sabato, con apertura gratuita serale (20.00-23.30) e le più diverse attività nei laboratori interattivi durante la giornata. Oppure al Museo Bagatti Valsecchi, offre vi è un duo per arpa e flauto, alle 18.00. Sempre di sabato, vi è l'apertura straordinaria del Museo Kartell di Noviglio o il Museo Scooter e Lambretta a Rescaldina. Sempre di sabato, il Teatro Dal Verme presenterà le musiche arabe del gruppo I virtuosi di Beirut. Ancora, Venerdì, sabato e domenica, il museo Martinitt e Stelline, presenteranno l'apertura straordinaria con laboratori dalle 10.00 alle 15.00 e letture in scena dalle 18.00 incentrate su racconti da fonti d'archivio dell'istituzione riguardanti la storia dell'assistenza ai minori abbandonati. Domenica invece vi è il mercato dei contadini in villa a Villa della Porta Bozzolo di Casalzuigno. E, altro ancora.
Per il programma completo www.faihttp://www.failpienodicultura.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Cultura%2FMILayout&cid=1213441494659&pagename=DG_CAIWrapper     

Vince

domenica 18 settembre 2011

Un dito medio per il mondo degli affari e della finanza?

Boeri propone un' altra questione alla città: L.O.V.E. di Cattelan



 L'assessore alla cultura Boeri ha annunciato dal suo sito di Facebook  e con un articolo su "la Repubblica" del 15 settembre l'imminenza della scadenza della permanenza dell'opera di Cattelan in Piazza Affari a Milano fissata, dalla precedente giunta, al 30 di questo mese. L'assessore lancia il dibattito su che fare della scultura e chiede un incontro con la cittadinanza in Piazza Affari, mercoledi prossimo alle h.18.00, per decidere se accettare l'offerta dell'artista che la lega la donazione della scultura alla città a condizione alla permanenza di L.O.V.E. all'attuale sito per cui l'opera è stata pensata. 
Le posizioni  dei cittadini sembrano dividersi tra i fautori di una permanenza in situ della scultura e fra coloro che vorrebbero invece il suo trasferimento in altro luogo. Il dibattito coinvolge sia il valore formale dell'opera come l'assunto simbolico alla base della realizzazione dell'opera.

 Personalmente, ritengo l'opera assolutamente valida, sia artisticamente e sia per i contenuti ideali che vi si riflettono. Mascherarsi dietro alla supposta volgarità del gesto raffigurato da L.O.V.E. per giustificarne il trasferimento mi ricorda gli struzzi quando nascondono la tasta sotto la sabbia. E' nella natura dell'arte rivolgersi al pubblico anche con mezzi polemici e di grande impatto emotivo. Vogliamo ricordarci che un opera d'arte è tale quando riesce ad esprimere coerentemente il contenuto con mezzi idonei?
L.O.V.E. si accorda perfettamente alla cromia della piazza attraverso il pregiato marmo di Carrara con il quale l'opera è stata realizzata, fondendosi armoniosamente con gli edifici che definiscono lo spazio della piazzza. Il grande basamento che sorregge l'opera, è studiato nelle proporzioni e nello stile per ricalcare e quindi relazionarsi alle severe zoccolature di base a sostegno dei fusti della facciata della Borsa. Esso contrasta con il voluto naturalismo della gigantesca mano con il dito medio innalzato verso l'alto. Cattelan ha voluto richiamare attraverso una serie di raffinati raccordi culturali, propiamente di natura italiana, l'irriverenza del gesto a quello del Potere, oppressivo e schiacciante della finanza dei tempi attuali, alla gigantesca mano di epoca tardo imperiale della statua di Costantino, del "colosso" di Barletta, sostituendone e capovolgendo l'intento di segnare una direzione, propia del colosso di Barletta, con quello di un dito accusatore e, per di più, irriverente. Queste osservazioni vorrebbero sgombrare il campo dalle accuse di scarsa artisticità dell'opera poichè, qui, non solo la forme ma il modo con i quali essi sono utilizzati, sottolineano nitidamente l'intento dell'artista: dar voce attraverso lo sberleffo ad una rabbia popolare contro gli speculatori e quei giochi finanziari che stanno conducendo diverse economie nazionali e le persone verso il baratro.

Sono anche altre le motivazioni che evidenzierebbero come la rinuncia a tale opera possa trasformarsi in un'importante occasione perduta per Milano. La città infatti sembra riportare la propia attenzione verso l'arte contemporanea, come attesta, non solo i progetti dell'assessore Boeri ma, in particolare, l'apertura in questi giorni, in via Zenale, dell'unica sede estera della prestigiosa Lisson Gallery di Greg Hilty, guidata a Milano da Hannete Hofmann con un calendario di diverse mostre di caratura internazionale. A ciò si deve aggiungere la nascita di un nuovo grande polo museale in Piazza della scala a registrare un nuovo dinamismo all'interno dell'ambiente d'arte milanese. 
Non sorprende allora che propio Milano, in questo momento, possa rappresentare un luogo particolarmente sensibile per recepire le drammatiche tensioni che la società occidentale sta registrando in questi anni, per lo meno in campo economico. Vale a dire che Piazza Affari è divenuta, in questo momento, un luogo dove Milano è stata in grado di reagire e ad elaborare con un prodotto artistico attualissimo alle domande di una società che sempre con più forza si sta ponendo domande sulle cause e conseguenze della crisi che stiamo vivendo. E L.O.V.E. rappresenta tutto questo, che lo vogliano o meno i banchieri e gli affaristi della Borsa milanese, contrari alla permanenza dell'opera nella piazza. Infatti, non bisogna dimenticare che propio la disputa intorno all'opportunità della collocazione dell'opera nell'attuale sito, ha portato i milanesi - e non solo - a convergere e a riscoprire questa piazza, sempre deserta e isolata rispetto al suo contesto ed anzi, da qui sembra ripartire un rinato interesse per l'arte contemporanea da parte della cittadinanza, chiudendo così il cerchio ed evidenziando quindi come il dibattito accesosi su L.OV.E. per merito della posizione assunta dall'artista stesso riguardo alla donazione alla città, non sia un fatto sterile e chiuso in se stesso ma rappresenti invece una interessante sfida per un nuovo sguardo verso l'esterno di una città chiusa in se stessa ormai da troppi anni.

Vince 

martedì 6 settembre 2011

Policleto

Ecco a voi il Power point riguardo alla lezione di Policleto. Attraverso le slides avrete modo di ripercorrere i punti principali della lezione che dovrete poi integrare con lo studio sul manuale (pp. 97, 102-104) e, naturalmente, gli appunti. 

Buon lavoro. 

Prof.

domenica 21 agosto 2011

...Ancora sul "Quarto Stato" del Museo del Novecento di Milano


...Quando i nodi vengono al pettine

http://www1.pictures.zimbio.com/gi/Letizia+Moratti+Museo+Del+Novecento+Press+p0fy9En7m0vl.jpg


La polemica avviata dall'assessore alla cultura di Milano Stefano Boeri sulle modalità della collocazione della grande opera di Pellizza da Volpedo cominciano a produrre le prime conseguenze. Le reazioni suscitate dalla proposta, riprese da una serie di articoli apparsi negli ultimi giorni sul quotidiano "la Repubblica", iniziano ad evidenziare questioni più sostanziali, quali un diverso modo di affrontare la cultura da parte della nuova giunta e gli errori nella programmazione culturale degli anni precedenti, fra tutti proprio quella del neonato Museo del Novecento.
Vi propongo allora due articoli apparsi su "la Repubblica", l'intervista a Philippe Daverio sulla "Repubblica" di ieri e un post da un Blog, nei quali vengono illustrati chiaramente quale siano le direttrici culturali che potrebbero aprirsi in seguito al confronto seguito alla proposta di Stefano Boeri. Ecco i Link
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/19/capolavori-dimenticati-sono-altri.html

http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/08/20/news/e_ancora_scontro_sul_quarto_stato_esposto_male_torni_in_comune-20642568/

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=13CPQ9

http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=87334
Buona lettura.

Vince   




                                  
                                                                                                                                                                                                                                      

venerdì 19 agosto 2011

Il "Quarto Stato" al Palazzo del Novecento?


Solo una polemica di Ferragosto?

http://www.pellizza.it/quarto~1.jpg

La questione dello spostamento della famosa opera di Pelizza da Volpedo nasce pochi giorni fa, con un post sul sito facebook dell'assessore alla cultura Stefano Boeri nel quale viene lanciata la proposta. A prima vista potrebbe sembrare una disputa  tipicamente estiva, come sembra leggersi da alcune dichiarazioni pubblicate da "la Repubblica" degli ex amministratori, per esempio De Corato e, fra le righe, nella più articolata dichiarazione dell'ex assessore alla cultura della giunta Albertini, Stefano Zecchi. In realtà l'idea dell'assessore alla cultura riflette questioni importanti sul rapporto fra il valore dell'arte e il modo con il quale esso è stato affrontato negli ultimi vent'anni dalla città di Milano. 
Ad uno sguardo distratto, il progetto di Boeri sembrerebbe ricordare il modo presuntuoso e arrogante con il quale la classe politica a volte afferma l'esclusività decisionale, anche sui beni della cittadinanza, come il trasloco di un'opera d'arte da un museo all'altro per volontà personale e non collettiva. Questo è il concetto che l'ex assessore alla cultura, Salvatore Carrubba, sembra sollevare in un intervista a"la Repubblica". In realtà se si approfondiscono le motivazioni della nuova proposta di Boeri, ci si può rendere conto dei fondamenti di tale iniziativa:" (Il Quarto Stato ndr.) ...In quella posizione, lungo la rampa di accesso, dietro una vetrata, con uno spazio troppo ridotto per poter percepire la potenza in movimento del dipinto, diventa un piccolo innocuo ornamento...", e poi, "E' stato trasformato in un diorama in vetrina. Non esiste che stia dietro a un vetro e sarà riposizionato in un luogo adatto, dedicato al quadro, aperto al pubblico e senza biglietto, com'era alla GAM (Galleria d'arte moderna di Milano, ndr.)". E', inoltre, la positiva risposta del sindaco di Milano ad evidenziare i caratteri di tale iniziativa: "E' un segnale molto importante perchè un'opera così significativa per la storia del nostro Paese deve essere esposta nella casa di tutti i milanesi. Ci impegniamo a fare in modo che il quadro possa essere collocato in una sala del Comune aperta ai cittadini...". Nelle dichiarazioni dei due esponenti politici, emerge la necessità di una nuova contestualizzazione dell'opera per correggere la fruizione dei valori formali e dall'altra per una questione simbolica, di valore espressivo dell'opera. Quest'ultima accezione è infatti stata colta dall'ex assessore Stefano Zecchi che intravede un senso ideologico dietro a tale proposta.
Ora, a parte la questione dell'onerosità dell'eventuale trasferimento nella Sala Alessi del Comune e di come si ponga il museo stesso vedendosi privato di una sua opera e come sostituirla, mi preme sottolineare altri aspetti. La prima, l'attuale collocazione del Quarto Stato, posto al termine della rampa di accesso del museo come simbolica accoglienza del visitatore, a preludio dei caratteri storici e artistici propri della collezione, è una scelta studiata da Italo Rota durante la ristrutturazione degli spazi dell'Arengario.                                                                              
http://www.goppion.com/news_pics/61.jpg    
E il museo nasce per comunicare tali sedimentazioni storiche della collezione al visitatore: il Quarto Stato è l'opera-manifesto che inaugura il museo in quanto rifletterebbe lo sviluppo del Novecento artistico milanese. Tale assunto è assolutamente opinabile (semmai potrebbe segnare la conclusione di certi valori formali propri del XIX secolo), come già è stato rilevato da altri. Il quadro, per via delle notevoli dimensioni, si presta perfettamente ad uso scenografico: lo spettatore ignaro, mentre è intento ad ammirare la bella rampa d'accesso sulla quale sta salendo, viene colto di sorpresa, vedendolo apparire improvvisamente alla sua sinistra. Il Quarto Stato emerge, inaspettato, dal buio nel quale è immerso e dove dei faretti a bassa illuminazione lo pongono alla nostra attenzione da dietro un'enorme teca di cristallo di oltre cinque metri di lunghezza. In tale contestualizzazione di sapore così scenografico, quasi cinematografico, l'opera però tende a perdere il rapporto con l'osservatore in quanto l'uso di tali effetti, come la penombra e la concentrazione luministica sulla sola opera e, non ultima l'enorme teca protettiva, allontanano il visitatore da quell'intimo rapporto che ognuno è solito creare con l'oggetto che ammira. La teca ci distanzia eccessivamente dal quadro, non permettendoci di osservare i minuti particolari, le asperità materiche della superficie, impedisce di girare liberamente davanti all'opera per via dello spazio ristretto, innalzando il Quarto Stato su di un altare virtuale e irraggiungibile, dove l'ammirazione, per forza di cosa, è data dell'effetto sorpresa al quale la nostra civiltà dell'immagine ci ha abituato, trascurando invece i caratteri scientifici alle quali una corretta esposizione in un museo dovrebbero di norma seguire.  
La seconda questione. Che valore assume un eventuale cambio di collocazione? Pisapia appare entusiasta della proposta. Bisogna ricordare infatti che il quadro venne acuistato dalla città con una sottoscrizione pubblica e che alla fine della guerra il sindaco di Milano Antonio Greppi la espose proprio in Palazzo Marino. Pelizza da Volpedo ha infatti richiamato quel mondo del lavoro (in questo caso agricolo) vittoriosamente in marcia, quegli ideali di fatica, onestà, sobrietà e democrazia al quale fa appello il senso di appartenenza ideale che lega l'elettorato del sindaco. Porre il Quarto Stato all'interno di Palazzo Marino significa allora dare il segno di appartenenza a quel mondo da parte dell'attuale giunta milanese propio nel momento in cui il Comune si trova in estrema difficoltà a causa dell'imminente manovra economica che promette di mettere una vera e propia ipoteca sui progetti di cambiamento nel rapporto con i cittadini e sulle innovative idee di rilancio della città attraverso le quali la nuova giunta avrebbe voluto caratterizzarsi e che ora si teme di non poter porre in essere.
A questo punto risulta evidente come la questione dello spostamento/non spostamento del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo non rappresenti una semplice querelle estiva di politici perditempo quanto l'individuazione culturale e ideologica di un ulteriore campo di scontro politico fra le due forze di sinistra e destra della città. Tra una destra che vede nell'arte una forma di sola spettacolarizzazione, veicolo ideologico verso il futuro tecnologico della nuova Milano da bere nell'epoca della globalizzazione degli anni zero, annunciate dai grattacieli di Citylife o della Regione Lombardia con le loro inedite forme quale riflesso del nuovo slancio econonomico di una supposta nuova tecnocrazia milanese e lombarda. L'attuale collocazione del Quarto Stato nel Museo del Novecento va spiegata quindi all'interno di tale ottica, o cultura, sottostante dei committenti (la giunta Albertini). Il rilievo riservato a tale opera è l'ennesima cartina di tornasole dello strabismo culturale impostoci, dove il privilegio è tutto ottico e prodotto scenografico, come solo una città come Milano è in grado di confezionare, città della moda e quindi del trionfo dell'apparenza e del consumo immediato e superficiale. La genialità della soluzione offerta dal Museo del Novecento è quindi da inquadrare all'interno della cultura milanese che Rota ha ben saputo interpretare. Dunque siamo di fronte anche in questo caso ad una proposta ideologica che con la stessa violenza con la quale si vogliono affermare i nuovi grattacieli, a dispetto della città, dell'ambiente e della volontà dei suoi cittadini, analogamente si è proceduto a strappare alla Galleria d'Arte Moderna della città uno dei suoi quadri più belli per riproporlo, ben confezionato come un abito di Gucci, nel nuovo museo ma sradicato dal contesto delle collezioni lì ospitate. Alla GAM vi era tutta una rete di rimandi continui con l'epoca e le opere presenti, nel Museo del Novecento invece essa non ha rapporti, poichè le opere che accolgono il visitatore una volta superato l'accesso sono le opere futuriste o esempi dell'avanguardia internazionale coeva. Se si fosse trattato di richiamare un contrasto dovuto all'irruenza delle nuove soluzione offerte a distanza di pochi anni dall'Avanguardia a Milano si sarebbe potuto allora utilizzare una qualsiasi altra opera. Ma il nuovo museo aveva bisogno di un richiamo più spendibili in termini di effetto per la glorificazione della giunta promotrice, a poca distanza dall'Expo e si è quindi arrivati a tale soluzione. Ideologica appunto.
http://ilgiornale.alice.cdn.interbusiness.it/foto-id=704193-x=800-y=800/il_museo_novecento.jpg
E i risultati infatti evidenziano le contradditorietà insite in queste operazioni, si veda, come ricorda l'articolo de "la Repubblica" più sopra richiamato, il crollo di visitatori nell'arco di pochi mesi, vistosissimo, e certamente non ci si può appellare unicamente alla fine dell'effetto novità/gratuità. Nel museo ci sono evidenti aspetti di difficoltà, negli spazi angusti di diverse sale, nel percorso obbligato di buona parte dell'itinerario, nelle collezioni che, se pur storiche, arrivano a malapena a toccare gli anni Settanta con lacune e vuoti non colmati. Volente o nolente, le collezioni infatti riflettono la fine di una certa borghesia, colta e illuminata che fece grande Milano. Ora invece si è di fronte ad una borghesia che preferisce progettare un nuovo museo di arte contemporanea (MAC progetto Liberskind) - dagli enormi costi di gestione annuale - quando Milano è priva di collezioni storiche di arte contemporanea di valore sul propio territorio che possano esprimere il valore della borghesia attuale.
A questo punto, invece di spostare nuovamente il Quarto Stato, non sarebbe meglio lasciarlo dove si trova ora o, se propio si vuole intervenire dal lato di una correzione della fruizione, non è forse preferibile riportarlo nel suo alveo naturale, vale a dire nella GAM? Non penso che Palazzo Marino sia un luogo di facile accesso più di un museo come afferma Pisapia. La sala Salvini è già destinata a mostre e la sua rutilante decorazione mal si accorderebbe ad un quadro del genere.
http://milano.corriere.it/media/foto/2010/08/27/palazzo--180x140.JPG







Forse, come già i tecnici del settore hanno già fatto notare (Alessandra Mottola Molfino, Philippe Daverio, solo per citarne alcuni) la questione Quarto Stato e MAC ci dovrebbe portare a riconsiderare il fatto che Milano, come del resto l'intera Italia, si basa su collezioni ospitate all'interno del cosidetto "sistema museale diffuso", vale a dire innumerevoli musei collocati estesamente su tutto il territorio e non concentrato in poche realtà come all'estero. Pensiamo solo ai musei del Castello Sforzesco, la Pinacoteca Ambrosiana, il Poldi Pezzoli, la Pinacoteca di Brera, ecc. e le realtà come la Fondazione Pomodoro, lo Spazio Forma e gli altri piccoli innumerevoli spazi dell'arte contemporanea presenti in città. Dunque, non sarebbe forse meglio ripensare ad una nuova gestione di tali spazi, secondo modalità più innovative, in linea con il nuovo spirito della giunta piuttosto che andare a imporre letture ideologiche, polarizzate e polarizzanti e quindi statiche e inerti come quella proposta da Boeri?

Vince   



martedì 2 agosto 2011

RassegnArte - di martedì 2 agosto 2011

Fotografia a Milano anche in agosto
L'estate è proprio arrivata caldo record nel weekend
Nonostante si ripeta ogni anno da diverso tempo la necessità di incentivare la vita culturale milanese anche in fase estiva, l'offerta di mostre a Milano anche quest'anno risulta praticamente nulla. Solo dal punto di vista della fotografia è presente qualche offerta, nel Museo Diocesano e allo Spazio Forma. 

Giorgio Majno Ritratti
Il Museo diocesano, all'interno dell'iniziativa Sere d'estate, ospita una rassegna di opere fotografiche in b/n di Giorgio Majno "Ritratti " dove vengono accostati in modo originale tematiche di tipo naturalistico a ritratti realizzati nel corso di dieci anni di attività. Come di abitudine, qui di seguito, riportiamo un brevissimo commento sulla mostra.

La ricerca di Giorgio Majno indaga il tema della bellezza, che non coincide con l’idea di apparenza, bensì con quella di equilibrio e di armonia, nell’analisi meticolosa di tipologie umane e vegetali. Il rapporto con la natura è essenziale per la sua indagine: i protagonisti dei ritratti fotografici in mostra sono sia persone che elementi naturali, che hanno dignità pari a quella dei soggetti tradizionali di questo genere.
Le opere di Giorgio Majno non sono, dunque, nature morte. In esse è possibile rintracciare la presenza di vitalità e di energia di cui tanti ritratti canonici sono privi.
Nasce nel 1954 a Milano, dove vive e lavora come fotografo professionista.
Attualmente è docente presso la Facoltà di Design ed Arti dell’Università Iuav di Venezia, sede di San Marino, presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e presso Spazio Forma, centro internazionale di fotografia di Milano.

da www.museodiocesano.it

"Ritratti ", Museo Diocesano, C.so di Porta Ticinese 95, dalle h.19 alle 24.00, fino al 3 settembre 2011

lunedì 1 agosto 2011

Viaggi. I nuovi racconti di Rumiz: inseguendo i luoghi perduti

Una mappa dei luoghi perduti attraverso gli itinerari di Paolo Rumiz

Rincomincia sulle pagine della rubrica di R2 di Repubblica i resoconti dei viaggi del giornalista. Questa volta, Rumiz ci conduce sulle tracce dei luoghi più improbabili della nostra penisola e non solo, quali "rocche abbandonate, fabbriche arruginite, paesaggi dimenticati ", come la prima tappa di questo itinerario, a Montevergine (Avellino), ex base Nato smantellata e caraterizzata da una foresta di antenne, ripetitori, impianti trasmettitori che nel loro insieme ricordano la visione sbucata improvvisamente dall'episodio di una fiaba oscura. Paolo Rumiz è un noto giornalista di Repubblica, già reporter durante il conflitto jugoslavo, nell'ultimo decennio ha sviluppato un giornalismo di viaggio alternativo, basato sugli itinerari che sappiano riflettere contenuti inerenti al nostro passato e sui luoghi meno considerati dal turismo ufficiale che riconducano all'essenza di "quel " territorio e dei loro abitanti, fatto di movimenti lenti e sguardi profondi. Il suo riflette un viaggiare consapevole del terreno che si calpesta, capace di restituire non solo l'autenticità di situazioni storiche e culturali e un modo di guardare al "territorio " nell'accezione più ampia del significato, più completa, con uno sguardo e parole che sanno legare il paesaggio alla storia e al sapere locale e alle sue radici, contro il modo di viaggiare e di guardare, frettoloso e superficiale, indifferente alle comunità che abitano i propi luoghi proposto nei nostri giorni.  
La prima puntata è iniziata ieri e si dipanerà quotidianamente fino al 26 di agosto. Di seguito vi propongo uno stralcio dal primo reportage e un video. Buona lettura.
Vince


 Video - intervista a Paolo Rumiz tratto da You tube

Dove si racconta quando, come e perché è nata l'idea di questo viaggio e della "mappa dei luoghi perduti" che lo ha reso possibile. E si irrompe nel primo di questi luoghi, l'ex base Nato di Montevergine, in Campania: una selva di torri di metallo abbandonate, non segni di una civiltà estinta ma resti parlanti del nostro secolo

Il temporale stava arrivando e noi ci eravamo persi in un labirinto di strade sterrate. Bisognava fare in fretta perché la cima del Monte Partenio – un complicato saliscendi coperto di selve - si stava trasformando in acchiappafulmini. Eravamo già sul punto di scappare quando, in cima a una salita, a quota 1200, vedemmo un cancello arrugginito cigolare nel vento. Andammo a vedere e restammo senza fiato. Oltre quel portale semiaperto iniziava una strada in discesa con doppio guard-rail. E lì in fondo, tra le nubi al galoppo, c'era una spianata aperta sul nulla, coperta di enormi, nude piattaforme di cemento e strani muretti semicircolari.

Sembrava il cerchio del sole di Stonehenge, un tempio incaico per sacrifici umani. Invece era l'ex base Nato di Montevergine, il nido smantellato dei radar della Sesta Flotta, l'occhio dell'America sul Mediterraneo. Esattamente quello che cercavamo. Nemmeno Marco, che era del posto, c'era mai arrivato ed era, come noi, senza parole. Gli americani avevano portato via tutti i loro impianti, e il luogo, riconsegnato alla natura, aveva assunto una forza preistorica, quasi minerale. Verso ovest, tra gli squarci di nebbia, oltre il querceto nella tempesta, comparivano la piana di Nola e la Valle Caudina. Napoli era invisibile nella pioggia.

Fu allora che venne la fatamorgana. Tra un sipario e l'altro di nubi comparve una cresta dentata come di stegosauro, e poi un'altra ancora. Erano colline irte di antenne, parevano le guglie del duomo di Milano, e in quel clima da poltergeist – stava grandinando - la cresta del Partenio, con i suoi luoghi sacri in contatto da millenni con la Dea Madre, ora si svelava coperta di una foresta pluviale di ripetitori, attivi o dismessi. Una montagna di ferro e ruggine dove il rapporto col cielo continuava sotto forma di una tempesta elettromagnetica che additava un'ombra terribile sopra di noi.

Non avremmo potuto scoprire quel luogo in un momento più fantasmagorico. La base Nato era vuota, ma il resto delle antenne estinte era lì, tra le nubi, con ancora appesa la targa dell'esercito, della polizia, delle poste o di varie televisioni. Ci si aprì un mondo. Torri di metallo abbandonate da non più di dieci anni friggevano nel temporale come gabbie di Faraday. Una montagna di ferri contorti come ramponi sulla gobba di un capodoglio friggeva nel temporale e urlava verso il cielo chissà quale messaggio. E noi ci arrampicammo nel labirinto, passammo liberamente vertiginosi ballatoi, sentimmo il vento sibilare in vecchie strutture paraboliche, oltrepassammo squarci di filo spinato, calpestammo piattaforme di cemento coperte di muschio e vetri rotti, sfiorammo pannelli elettronici spolpati dai vandali, passammo sotto torrette di guardia perfettamente vuote e indecifrabili totem d'acciaio. Non erano segni di una civiltà estinta ma resti parlanti del nostro secolo.

                                                            *    *    *
Fu allora che pensai alla prima volta in cui avevo sentito delle presenze in una rovina abitata dal vento. Era successo in Grecia nel 2004. Ero solo, e non so cosa mi avesse preso di bivaccare sui faraglioni di Zante, nella chiesa di Aghios Andreas semidistrutta da un terremoto negli anni Cinquanta. C'era solo un cartello stinto di legno a indicarla, ma egualmente ero sceso a piedi per un sentiero da capre. Alcune edicole con piccole icone e lumini punteggiavano la strada nel tramonto. Portavano nomi di santi – Elia, Dionisio, Dimitri o Maria – che nascondevano malamente gli dèi che li avevano preceduti. Forse per questo richiamo pagano ero stato attratto dal luogo. Le pietre appese al precipizio mi parlavano.

Tirava vento, l'ultimo sole affondava in un mare omerico “color del vino” illuminando il Santissimo oltre i resti dell'iconostasi, e io avevo pensato di godermi quelle magnifiche rovine nella certezza di una pace assoluta. Avevo tirato fuori dal sacco pomodori, pane e formaggio greco, ci avevo aggiunto capperi selvatici cresciuti su un muretto sbilenco, e dopo un sorso di retsina mi ero messo ad aspettare il silenzio. Ma il silenzio non veniva. Era una notte dannatamente animata. Grilli, cani lontani, asini, capre, fruscii nella boscaglia. E poi quella densità pazzesca di oscuri dei-guardiani infrattati come fauni tra i corbezzoli e i ginepri.

Verso mezzanotte mi accorsi che un San Basilio mi guardava in silenzio. La luna era sorta dalla montagna e attraverso il tetto sfondato del monastero illuminava un affresco pieno di santi. Dal mio sacco a pelo vidi una processione uscire dal buio e farsi strada verso l'uscita. Eusebio, Timoteo, Giovanni Crisostomo e altri andavano sotto le stelle verso il portale aperto sullo Jonio immenso e nero. L'ultimo era Basilio, che roteava gli occhi infossati. La luna aveva ridato colore all'affresco sbiadito dalle intemperie, e i gerarchi erano là, terribili, schierati come i dignitari di Bisanzio nel mosaico di Sant'Apollinare a Ravenna.

Non avrei mai più visto una notte simile. Presi freneticamente appunti fino all'alba. Scrissi: “Mantide religiosa, un geco che tenta di prenderla. Geco che batte in ritirata, lancia il suo sordo richiamo. Colonna di formiche illuminata dalla luna. Brucare di capre. Cane color del miele entra nella chiesa, mi annusa, poi mi si accuccia vicino e si fa carezzare”. E ancora: “Vento sibila tra le pietre come un'arpa eolica. I santi tornano nel buio. Luna scende a perpendicolo nello Jonio color zinco. Dormiveglia con litanie e parole greche antiche, Anthropos, Ouranòs. Primi galli sulla montagna, scricchiolio delle pietre all'alba”. Le vecchie pietre parlavano, ne ero sicuro. Non occorreva che fossero abbandonate da secoli. Pochi anni bastavano per instaurare un rapporto. Era sufficiente che il vento ne diventasse inquilino.
di Paolo Rumiz,  "Le case degli spiriti ", in R2 di Repubblica del 31 luglio 2011










mercoledì 27 luglio 2011

RassegnArte -di mercoledì 27 luglio 2010

Medardo Rosso alla Galleria Porro di Milano

http://www.bta.it/img/a1/16/bta01620.jpg

E' visibile fino al 29 luglio alla galleria Porro di Milano una piccola e ben curata mostra su Medardo Rosso, allestita da Paola Mola, tra i maggiori studiosi dell'artista, già curatrice, insieme a Fabio Vittucci, del catalogo sull'intera opera di Medardo Rosso nel 2009 e ora autrice del catalogo della mostra. E' la prima volta, dal 1946, che opere di Medardo Rosso vengono esposte in spazi privati, propio per la difficoltà a reperire le rare opere dell'artista dai musei. Oltre a contare su opere come "La femme à la voilette " o "L'enfant a la bouchèe ", in mostra compare l'unico esemplare in bronzo della "Petite rieuse " creduta perduta dopo una mostra a Lipsia nel 1912. Inoltre vi sono tre disegni inediti della collezione già Sommaruga e due foto con una rielaborazione fotografica. Quest'ultimo è un aspetto molto importante documentato dalla mostra, vale a dire le particolari modalità - e l'importanza - dell'utilizzo delle lastre fotografiche da parte dell'artista per giungere a quegli effetti luministici quasi magmatici. Di seguito, vi propongo un articolo di Rinaldo Censi focalizzato su questa caratteristica di Medardo Rosso e un link sulla mostra.
Vince
Andrea Porro arte moderna e contemporanea, C.so Monforte, 23 Milano, fino al 29 luglio, Orari lun-mar h. 9.30-13.30 e 15.30-19.30, sab solo su appuntamento, chiuso la domenica, ingresso gratuito

http://www.cultframe.com/wp-content/uploads/medardo_rosso-femme_%C3%A0_la_voilette.jpg

Le forme mutanti e aliene di Medardo Rosso
Lungo un percorso scandito dall'idea di serie, l 'artista ha realizzato cere, gessi, bronzi. Materia comunque brulicante, in uno stato di continua metamorfosi

 
Quando nel 1823 pubblica il Saggio sulla natura, il fine e i mezzi dell'imitazione nelle belle arti , Quatremère de Quincy è già un fossile di sessantotto anni, ma detterà legge per altri ventisei: una specie di papa introdotto in ogni anfratto del potere. Il problema è quello dell'imitazione. È la questione cardine che ruota attorno al bel saggio di Jean-Claude Lebensztejn, dedicato appunto all'Essai di Quatremère ( Dell'imitazione nelle belle arti , Solfanelli 2008). L'arte (ciò che imita) è per essenza in difetto in rapporto alla natura (ciò che viene imitato). Il problema sta proprio qui, sostiene Quatremère, nel voler annullare la distanza tra l'immagine e il modello: l'imitazione appunto, colta nella sua essenza. Quatremère espone qui, in bella vista, un'ovvietà semiotica, che emerge nel suo Essai come pietra angolare. Alcuni esempi: ai dipinti mancherebbe il rilievo, alla scultura il colore e lo sfondo. Insomma, alle arti mancano la vita, il movimento, la sensibilità. Come ovviare a questa mancanza? Compensandola attraverso la perfezione , ciò che ci risarcisce da una mancanza. Sono argomenti certo risaputi. I romantici (Géricault, ad esempio) faranno piazza pulita di queste teorie. Quatremère de Quincy forse non avrebbe apprezzato The Thing , il remake di John Carpenter (1982). Nondimeno, in gioco, rientrano questioni piuttosto simili. La perfezione, ad esempio. Nel film di Carpenter un essere alieno tenta infatti di imitare sempre più precisamente (alla perfezione ) gli esseri umani (l'operazione avviene per gradi, in primis si presenta sotto le spoglie di un cane da slitta...), allo scopo di attuare un attacco alla terra, sostituendo l'intera popolazione. Pur nel biancore della neve del Polo, il film di Carpenter è estremamente cupo, aperto e chiuso da scenografie di rovine, devastate dalle fiamme: due uomini attendono la loro ora, impassibili (uno dei due sarà l'alieno?). Pensavo a tutto questo di fronte ad alcune opere scelte di Medardo Rosso presso la Galleria Amedeo Porro, a Milano (questo è anche il titolo del bel volume curato da Paola Mola, infaticabile studiosa di Rosso - Rosso. Opere scelte , Skira/Amedeo Porro 2011). È soprattutto davanti a Femme à la violette (1895), qui in una cera su gesso del 1919-23, dal modello del 1895, che ho associato queste forme in formazione, instabili, questa massa brulicante e intrattabile in cui un volto, i suoi lineamenti, fanno capolino, magnifici, lisci, distesi, mentre tutt'intorno si muove l'inferno, alla Cosa del film di Carpenter. Anche qui un alieno lavora ad una forma: ne testa la malleabilità, ne studia la composizione, cerca di trovare una perfezione, che però un millesimo di secondo dopo è già svanita, perduta in un turbinio di liquido viscoso: la cera. È un fiore che si schiude, simile a miele colloso ormai rappreso, bloccato in un arresto di immagine, in uno stato di metamorfosi (il dettaglio fotografico della Femme à la violette sul catalogo leva il fiato: una forma immaginaria, energia che arriva da un'altra galassia). Prendete L'Enfant à la Bouchée de pain (gesso patinato, 1897-1900 circa), o La portinaia (gesso patinato, 1883). Si riesce a captare un'attività della materia che lascia presagire un principio di coagulazione in una forma che potremmo definire pre-anatomica: fisiologia sperimentale, incandescente. O il suo contrario: una minacciosa «fuga», una colata di materia in disgelo, inesorabilmente fissata dal tempo. I due Sagrestani (gesso dipinto, circa 1887 - gesso, 1883) non sono da meno, quasi fuori equilibrio, come sgonfiati. Modello originale, modello per le fusioni: la serie dell' Enfant pone seri problemi filologici e di datazione (che il volume tratta egregiamente, servendosi anche di una serie di esami tomografici), che qui non toccheremo, limitandoci a segnalare come in Rosso emerga l'idea di un percorso costellato dall'idea di serie : dalla cera alla maschera in bronzo all'elaborazione fotografica (sottolinea Paola Mola). Fascino dei calchi: gessi, cere, bronzi, modelli originali, modelli per fusione, fotografie (ma anche disegni), stampe di dettagli a contatto, ingrandimenti, ritagli sgembi, fotomontaggi (magnifico quello esposto, con L'Enfant incollato all'interno di un accrochage della sala del Salon d'Automne , 1904), aristotipi (celloidina/carta al collodio, carta al citrato/carta alla gelatina): perdita della forma, materia che si disfa minacciosa, viscosa, a volte trasparente, o colloidale. Prendete la Bambina di Lipsia, la Petite Rieuse , qui in un bronzo del 1902 (primo esemplare del 1889, probabilmente in terracotta, tradotto in cera tra il 1895 e il 1900, modificato in seguito e ridotto, eliminando il busto). Prendete La ruffiana (bronzo, 1889). Quelle risate infantili ricordano forse le isteriche del dottor Charcot, un corpo mutante, il ritratto di una patologia psichica; un volto che oscilla tra l'estasi e un'insopprimibile risata. La malattia appartiene al campo estetico? E nelle fotografie della Petite Rieuse la forma sfuma, si perde in un alone di vapore, un velo del bagno chimico, come se la massa degradasse, perdesse compattezza, oppure volesse migrare, spostarsi, pronta dissolversi, a schizzar via come il sangue alieno a contatto con l'ago incandescente nel film di Carpenter. Se parlavamo di serie è per azzardare e sostenere che la sfera artistica di Rosso, come per Marcel Duchamp, rientri pienamente sotto l'autorità del paradigma fotografico. Forse. Dopotutto è impossibile parlare dell'opera di Rosso senza segnalare «l'incidenza specifica dell'industrializzazione sulla pratica tradizionale dei pittori», senza ricordare l'invenzione della fotografia e «le condizioni enunciative dell'arte "nell'era della sua riproducibilità tecnica"», come ricorda un autorevole studioso di Duchamp, Thierry de Duve. Eppure, c'è in Rosso qualcosa che eccede la semplice causalità storica legata alla «riproducibilità». Carrà sosteneva che in Rosso «l'empito del creare si era in lui spento in seguito a una terribile caduta in tram». Oppure, come voleva la vulgata, Rosso aveva terminato la sua vena nel 1900, facendo poco o nulla fino al '28, se non curare nuove edizioni delle sue opere, senza più crearne di originali. Perciò, la domanda è - come segnala Paola Mola in Rosso. Trasferimenti (Skira 2006) - «se dopo quanto abbiamo visto sul campo delle arti dalla metà del Novecento, dopo Beuys e la Pop, il minimalismo, il dominio della riproduzione fotografica e filmica, analogica e digitale, sia ancora ragionevole fare di Rosso l'eccezione cui riservare una strumentazione critica archiviata, dove l'originalità si misura solo in relazione al vero e alla natura, e la creatività si mantiene circoscritta dentro i mezzi della tradizione ottocentesca». La risposta è: no. Per questo, lasciamo il fossile Quatremère e i suoi sodali alle loro beghe su ideale e perfezione. E lasciamo Carrà e anche gli alieni di Carpenter con la loro furia imitativa (somiglianza per eccesso). L'unico alieno è Rosso. Ci sono artisti che gettano un occhio sulla tela, mezzo sulla tavolozza, e dieci sul modello, ricordava Kandinsky. Che, invece, faceva l'esatto contrario: dieci colpi d'occhio sulla tela, uno sulla tavolozza, e mezzo sul modello. Rosso, da parte sua, per il resto della sua vita lavorerà al chiuso, tra reagenti chimici, modelli (matrici?) per fusione, calchi, gessi, cere. In pura perdita, con inconfondibile sprezzatura : l'arte cioè di fare le cose senza dargli un prezzo, magari giusto per sentire l'estasi della materia, colta in un istante senza gravità, in fluttuazione. Una sorta di antivalore , giusto per il piacere di dare vita e risonanza alle forme, enunciare l'instabilità della figura umana, fino a perturbarla.
di Rinaldo Censi da Il Manifesto di martedì 26 luglio
Sulle caratteristiche della mostra, è utile il seguente link http://www.bta.it/txt/a0/06/bta00608.html 

lunedì 25 luglio 2011

RassegnArte - di lunedì 25 luglio 2011

Fotografia contemporanea



Chiude tra poco una bella mostra alla Galleria Primo Marella a Milano dove sono ospitati cinquantacinque autori internazionali con i quali è possibile abbracciare l'evoluzione del panorama della fotografia internazionale dagli anni Ottanta sino ai nostri giorni, non solo da un punto di vista stilistico ma anche riguardo alle tecniche utilizzate. Gli spazi della Galleria, inoltre, sono particolarmente belli e costituisce un ulteriore motivo per andare a vedere la mostra. L'unico appunto riguarda le modalità della scelta a causa dell'ampiezza della panoramica offerta che non permette di individuare il criterio alla base della selezione. Dalla Rete ho scaricato due analisi, focalizzate l'una sulle foto presenti nell'esposizione e l'altro invece sugli spazi che la ospitano.
Vince
A tribute to photography. Primo Marella Gallery, Viale Stelvio 66 - Orari mar-ven h. 11.00-19.00, sab su appuntamento. Fino al 31 luglio 


Bastano pochi passi dalla porta d' ingresso per trovarsi nella grande sala centrale della galleria di Primo Marella dove si è assaliti da una contrastante, duplice sensazione: quella piacevole suscitata da ogni parete su cui una grande quantità di fotografie è accostata con garbo formando giganteschi puzzle (uno dedicato solo a foto di baci), e quella, vagamente spiazzante, della ricerca di un filo conduttore. Benvenuti nel mondo della fotografia contemporanea dove a ogni visitatore viene affidato un simbolico filo rosso perché lo aiuti a muoversi in un labirinto meraviglioso da cui, questa la novità, si è sicuri di uscire e in genere contenti. Si comincia, dunque, facendo vagare lo sguardo che si posa su volti e corpi, paesaggi e architetture che disegnano l' intreccio tipico di una contemporaneità dalle mille sfaccettature. Ma poi, oltre la prima sala, il percorso si snoda: apre piccoli anfratti per dare spazio a opere meno viste di grandi autori (un delicatissimo autoritrattoe un paesaggio di Shirin Neshat, la modella-musa Lisa ripresa da Robert Mapplethorpe), si allarga in improvvise composizioni che ripercorrono la storia della fotografia cinese dalle prime osteggiate performance degli anni ' 90 di Zhu Ming agli arcobaleni di successo internazionale realizzati vent' anni dopo da Jiang Zhii. Anche i nuovi fotografi provengono dalle economie emergenti: dalla Malesia Yee I Lann, dal Brasile Caio Reisewitz, dal Sudafrica Ayana Vellissia Jackson che indaga sul ruolo della donna con una serie di autoritratti. Il filo conduttore lo disegna lo stesso Primo Marella in veste di curatore, oltre che di gallerista attentissimo al nuovo: i 55 autori esposti creano le premesse di una storia della fotografia dai confini espressivi e geografici sempre più vasti. Completa la mostra il catalogo costruito attorno all' illuminante saggio di Demetrio Paparoni. Vicina alla porta, una modella dal volto velato di nero (di Inez Van Lamsweerde & Vinoodh Matadin) osserva chi esce come se volesse interrogarlo o ricordargli che, per il tempo della visita, era lei ad accompagnarlo con il suo sguardo.
di Roberto Mutti, in www. ricerca.repubblica.it del 2 luglio 2011

http://www.primomarellagallery.com/images/hexHall_02_big.jpg
La nuova galleria, grazie alle volumetrie degli spazi ed alla vicinanza con lo storico spazio Marella Gallery, sita in via Lepontina a poche centinaia di metri, contribuisce ad arricchire le possibilità espositive per i progetti portati avanti da Primo Marella.

Luogo vitale, mentale e fisico per l’arte contemporanea la galleria nasce come spazio privilegiato per progetti curatoriali di ampio respiro centrati sull’esaltazione delle tecniche espressive dell’avanguardia internazionale.

Per la progettazione della galleria Primo Marella si è affidato all’architetto di fama internazionale Claudio Silvestrin che vanta al suo attivo molti spazi per l’arte contemporanea tra i quali la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, la galleria White Cube, la Lockhart Saatchi e la nuova sede della Victoria Miro di Londra. Il talento nel combinare un linguaggio architettonico essenziale e fortemente evocativo ha reso Silvestrin uno dei maestri riconosciuti del minimalismo progettuale d’avanguardia. Questo il commento espresso dall’Architetto durante la sua ultima visita alla Galleria ormai in fase di ultimazione: ”Sono entrato da Primo Marella e ho visto- lo spazio-“ (Claudio Silvestrin).

L’ampiezza degli spazi della galleria - circa 500 mq – fa sì che essa sia pronta ad accogliere ogni tipo di sperimentazione nel campo dell’arte contemporanea. Accanto alla grande sala destinata all’attività espositiva sarà presente un’area polifunzionale concepita per accogliere i visitatori senza disturbare la fruizione delle opere esposte. Il percorso espositivo si completa con una sala allestita con le più moderne tecnologie destinata alla fruizione di opere multimediali.

Primo Marella Gallery si propone come un luogo progettuale in costante dialogo col pubblico, uno spazio di riflessione artistica e un laboratorio di idee: un luogo dove dilatare il tempo di fruizione delle opere anche attraverso la documentazione. Lo spazio vuole divenire un punto di riferimento costante per il pubblico prefiggendosi l’obiettivo di affermarsi come centro vivo di incontri e di scambio di idee tra artisti, curatori, collezionisti e personalità del settore.
Questa nuova presenza, contribuisce a confermare l’importanza e la vitalità dell’area “Via Farini - Via Valtellina” quale polo culturale alternativo in città.
da www.artemotore.com, del 1 novembre 2007

domenica 24 luglio 2011

RassegnArte Musica - del 24 luglio 2011

Keith jarret a Milano



da youtube

Il grande musicista Jazz sarà a Milano il 28 luglio in Trio con Peacock al contrabbasso e De Johnette alla batteria. Consiglio a tutti di andare a vedere il concerto perchè è una grande occasione per vedere questa formazione di mostri sacri del Jazz che hanno contribuito alla storia della musica. Vi allego una recensione dal Corriere della Sera.

Estro e classicità del jazz con il piano magico di Jarrett

In trio con Peacock al contrabbasso e DeJohnette alla batteria. Napoli, successo al San Carlo. Giovedì suonerà a Milano

NAPOLI - Stregato da Napoli e dal suo Teatro San Carlo, Keith Jarrett si è ripresentato all'ombra del Vesuvio solo due anni dopo essere stato il primo jazzista a suonare nel tempio della lirica partenopea. Allora, esattamente il 18 maggio 2009, aveva dato uno dei suoi esoterici concerti pianistici solitari per i quali è amato da ogni sorta di pubblico; ora si è presentato invece alla testa del trio completato da altre due personalità di grande peso, Gary Peacock al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria. E certamente buona parte del pubblico di allora è tornato ad ascoltarlo, perché la platea e i palchi (con biglietti non proprio popolari, dai 60 euro delle ultime balconate fino ai 200 dei posti più ambiti) vibravano in sintonia con la sua musica sempre sapiente e fascinosa, come se si trattasse di ritrovare un vecchio amico.
 Lo Standards Trio, nato nel 1983, con Jarrett, Gary Peacock (contrabbasso) e Jack DeJohnette (batteria)








Prima tappa nazionale di un tour europeo di otto date, il concerto napoletano sarà seguito in Italia soltanto da un'esibizione del trio agli Arcimboldi di Milano, giovedì 21. Il gruppo tiene fede al nome con cui incise i primi dischi, nell'ormai lontano 1983: Standards Trio. Anche a Napoli, infatti, si sono ascoltati brani del grande repertorio nordamericano, alternati piuttosto regolarmente fra le ballad, nelle quali il pianista creava spesso arabeschi quasi impalpabili, e temi vicini alla scattante tradizione del bebop. Ma bisogna dire che la triangolazione fra i formidabili interpreti che costituiscono il gruppo permette loro di usare spesso questi temi famosi come trampolini verso gli spazi inesplorati dell'improvvisazione assoluta. Se li si ascolta bene, poi, i tre fuoriclasse americani rivelano perfettamente la loro formazione, che risale ai libertari anni Sessanta, non mostrandosi particolarmente interessati a un flusso musicale rassicurante; al San Carlo frammentavano costantemente le frasi, rendendole ruvide e scabrose come per meglio assaporarle, e anche le ballad più languide si aprivano ad istanti di sottile meraviglia, simili in qualche misura a frattali sonori. Così, dietro al pianoforte sempre narrativo e iridescente del leader, il contrabbasso di Peacock disegnava volentieri vette e valloni di lontane catene montuose, senza accontentarsi di un accompagnamento costante, mentre la batteria di DeJohnette sorprendeva con gli sciabordii dei piatti, luminosi come folgori in una notte senza luna. Le diverse camicie dei tre (rossa quella di Jarrett, nera di Peacock, bianca di DeJohnette) sembravano rappresentare gli elementi che si mischiano e si ricompongono nel loro discorso musicale, fuoco terra e aria, in un concerto che ormai rappresenta la classicità del jazz.
Di Claudio Sessa, dal Corriere della Sera del 19 luglio 2011

Allarme Beni culturali - del 24 luglio 2011



La speculazione edilizia: un caso esemplificativo a Marino (Rm)
 
Vi richiamo l'allarme lanciato recentemente da alcuni giornali italiani a proposito di un nuovo caso di disinteresse verso i beni culturali italiani, riguardante uno dei pochi esempi sopravvissuti di santuario dedicato al culto di Mitra. In questo caso si tratta del monumento sito nel comune di Marino, il meglio conservato e più completo tra i tre rimasti, dato che custodisce anche le decorazioni pittoriche. Tutto ciò risulta minacciato dalla costruzione di un condominio di cinque piani a pochi metri dal mitreo, grazie ad una concessione edilizia rilasciata dal comune stesso. Già con l'apprestamento del cantiere il mitreo ha subito i primi danni a causa dell'infiltrazione di acque dovute al taglio di tubature eseguito dalla ditta costruttrice. Nel caso dell'articolo da me proposto, il suo estensore, Salvatore Settis, richiama il pericolo rappresentato da casi come questi per i beni di pubblica utilità, quali i beni culturali, poichè siamo in presenza di un interesse puramente locale che prevale su di un interesse assolutamente più largo, quale quello pubblico, come può essere considerato un santuario mitreo di epoca romana ancora sopravvissuto e ora danneggiato anche da un'accostamento impropio con un edificio moderno e sicuramente di dubbio gusto, che, posto a pochi metri, cancella un altro elemento importante per un bene culturale di questo tipo, vale a dire la conservazione del contesto ambientale, il quale partecipa e contribuisce ad arricchire il fascino e la bellezza di un monumento.
Vince

Sappiamo tutti «perché non possiamo non dirci cristiani», secondo la celebre formula di Benedetto Croce. Quasi tutti abbiamo dimenticato, invece, il grande rivale tardo-antico del Cristo: il dio Mitra. Questo antichissimo dio solare di origine indo-iranica divenne sempre più popolare nel mondo romano a partire dal II secolo dopo Cristo: il culto, diffuso attraverso i soldati, che si muovevano da una parte all'altra del l'impero, ne raggiunse ogni angolo. Dappertutto, dalla Mesopotamia alla Scozia, si impiantarono mitrei, luoghi di culto (quasi sempre sotterranei), dove si celebravano riunioni e riti, sempre dominati dal l'immagine-standard del sacrificio del toro, un rituale di morte e rigenerazione che assicura al mondo perpetua fecondità. Quello di Mitra era un culto misterico, a cui i fedeli erano introdotti da rituali complessi, e percorrevano i sette gradi della gerarchia (corvo, ninfo, soldato, leone, persiano, heliodromos o corriere del sole, padre). Ma al gesto crudele con cui il dio immola il toro squarciandogli la gola non corrispondevano rituali altrettanto cruenti: anzi, il mitraismo fu un culto, tendenzialmente monoteistico, che nel dio esaltava la perenne vittoria del bene sul male, e perciò propugnava una religiosità della redenzione, un'etica della salvezza (individuale) attraverso il rito (collettivo).
Non si contano le rappresentazioni della scena-chiave del sacrificio del toro, specialmente in bassorilievi, bronzi, gemme e terracotte. Rarissime, invece, le rappresentazioni pittoriche che sono sopravvissute: se ne contano in Italia solo tre: a Roma sotto Palazzo Barberini, a Santa Maria Capua Vetere, e a Marino, a un passo da Roma. È questa la più importante, più bella e meglio conservata delle immagini dipinte di Mitra, entro la cisterna di una villa romana trasformata in luogo di culto alla fine del II secolo d.C., a opera di un Cresces, actor (agente, o amministratore) di Alfio Severo, come dice un'iscrizione: sono conservati i panconi lungo le pareti dove i fedeli consumavano collegialmente il banchetto sacro. La scena centrale è qui fiancheggiata (proprio come accadrà in tante pale d'altare medievali, col Santo al centro e le sue "storiette" ai lati) da otto quadretti che tracciano la «biografia cosmica» di Mitra, dalla gigantomachia che stabilisce l'ordine universale alla nascita del dio da una roccia, al «miracolo dell'acqua», che egli fa sgorgare dalle pietre.
Il preziosissimo affresco del mitreo di Marino (circa 200 d.C.), riscoperto nel 1961 e presto acquisito al demanio pubblico, è sopravvissuto per diciotto secoli in condizioni prodigiose, assoluto unicum nel catalogo pur vasto delle rappresentazioni di Mitra, ma proprio in questi giorni rischia la distruzione. Viene da non crederci, ma il comune di Marino ha concesso il permesso di edificare un condominio di cinque piani in via del Granaio, al termine di una strada soprastante il mitreo. Il dissennato progetto prevede un ampio sbancamento, per collocare l'ingresso della palazzina sette metri sopra la volta del mitreo: lo scavo per le fondamenta danneggerà dunque irreparabilmente un luogo di culto e d'arte di enorme importanza, data anche la natura del terreno e dei materiali usati (fra cui il peperino). A quel che pare, l'inizio dei lavori ha già danneggiato l'aula mitriaca, perchè gli scavi hanno tranciato una condotta di acque scure che hanno cominciato a riversarsi nell'antico luogo di culto. Il dio invictus che prometteva ai suoi fedeli la vittoria sul male e la salvezza eterna riuscirà a essere salvato? O dovremo assistere a questa ennesima barbarie, i riti empi dei palazzinari che distruggono cinicamente la nostra storia? Vale di più la licenza edilizia rilasciata da un comune o il principio di tutela del patrimonio storico-artistico sancito dalla Costituzione e garantito dalla legge?

di Salvatore Settis in Il sole 24 ore del 26 giugno 2011


   

venerdì 22 luglio 2011

Focus - di venerdì 22 luglio 2011

Mostra Materia prima. L'arte povera russa al PAC di Milano


In questi giorni, fino all'11 settembre, è' visibile al PAC di via Palestro un ampio gruppo di artisti russi  contemporanei riuniti per dare vita a questa mostra da Marat Guelman, ora direttrice del Museo di Perm che, nel periodo post sovietico li raccolse all'interno della propia galleria. Questi 23 artisti si caratterizzano per l'utilizzo di materiali estremamente semplici e naturali, in diversi casi riciclati e riutilizzati, a richiamare le materie prime e le grandi ricchezze naturali della propia terra russa, come petrolio, legno, carbone, ferro. L'interesse di questa mostra è dovuta alla curiosità di poter ammirare le novità artistiche contemporanee prodotte dalla cultura figurativa di una nazione prepontentemente affacciatasi al novero delle nuove potenze più ricche del pianeta. Inoltre, l'arte povera russa guarda alla corrente d'avanguardia sorta in Italia attraverso l'iniziativa critica di Celant e che annoverava tra le sue fila artisti come Merz o Kournelis e che a Milano annovera quelle gallerie e collezioni private che conservano molte di quelle opere che nella città trovarono un loro luogo di adozione. Diviene stimolante quindi confrontare propio a Milano questi artisti a quelli che li precedettero, così come osservare la differente sensibilità e quindi i risultati rispetto ad una produzione eseguita in un momento tanto diverso. Tanto più che le opere sono di notevole qualità, esse infatti provengono direttamente dall'analoga esposizione tenutasi al Petit Palais di Parigi e diretta poi al MOMA si New York. Seguono due interventi, l'uno di spiegazione della mostra, l'altro riguardante un punto di vista di un osservatore russo che mi sembrava interessante proporre per avere un diverso angolazione culturale.
Materia prima. Russkoe Bednoe, l'arte povera in Russia, fino all'11 settembre 2011 - Orari lun 14.30-19.30, mar-dom 9.30-19.30, gio 9.30-22.30

Attenzione! La mostra è anche per i bambini, dai 4 ai 7 anni! Bisogna prenotare online a www.comune.milano.it/pac, dove è prevista una narrazione di favole legata alle opere esposte
Vince


Un omaggio all’arte russa attraverso
116 opere di 23 artisti contemporanei.

Da venerdì 8 luglio a domenica 11 settembre 2011 il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ospita Materia prima. Russkoe Bednoe – “l’arte povera” in Russia, a cura di Marat Guelman. Promossa dal Comune di Milano – Settore Cultura, con il patrocinio del Governatorato della Regione di Perm’ (Federazione Russa), del Ministero della Cultura, delle Politiche Giovanili e della Comunicazione della Regione di Perm’ e dal Consolato della Federazione Russa a Milano, la mostra, organizzata dall’Associazione Italia Russia e dal Museo d’Arte Contemporanea di Perm’, rientra e apre a Milano il calendario di iniziative previste per il 2011 in occasione dell’Anno della Cultura e della Lingua Italiana in Russia e della Cultura e della Lingua Russa in Italia.

La mostra, ideata da Sergey Gordeev, membro del Consiglio Federale Russo per l’amministrazione di Perm’ da anni impegnato in ambiziosi progetti per lo sviluppo culturale e architettonico della Regione, rappresenta una delle più grandi esposizioni collettive di arte contemporanea russa dell’ultimo ventennio e ha già destato particolare interesse e apprezzamento a livello internazionale: è stata premiata nel corso della Terza Biennale d’Arte Contemporanea di Mosca (settembre 2009), mentre una selezione di opere è stata esposta al Grand Palais di Parigi a giugno 2010 e dopo il passaggio a Milano, sarà ospitata al PS1 del MoMA di New York.

Il curatore della mostra, Marat Guelman, personalità molto nota grazie al suo profondo impegno intellettuale e politico nella realizzazione di grandi progetti di respiro nazionale e internazionale in collaborazione con prestigiose istituzioni dedicate all’arte contemporanea come White Box (New York), Tretyakovskaya Gallery (Mosca), Biennale di Venezia, Centre Pompidou (Parigi), dal 2008 è direttore del Museo di Perm’, che riveste un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale e scientifico non solo della Regione ma di tutta la Federazione Russa.

Materia prima. Russkoe Bednoe “l’arte povera” in Russia presenta grandi installazioni, sculture, lavori di videoarte, fotografia e pittura di 22 artisti contemporanei tra le figure più importanti della scena artistica russa di questi anni più un omaggio al fotografo Aleksandr Sljusarev.

Elemento fondamentale comune alla ricerca artistica di ciascuno è l’utilizzo delle risorse naturali della Russia: legno, carbone, ferro e petrolio come nel caso di Vladimir Anzelm e Dmitry Gutov ma anche la passione per i materiali poveri come il cartone, l’argilla, la gommapiuma che accomuna Koshlyakov e Brodsky, o ancora per gli oggetti recuperati/riciclati e restituiti ad una nuova vita nelle opere di Olga & Aleksandr Florenskye.

Materia Prima Russkoe Bednoe è un progetto unico che ci offre l'occasione di riflettere su un’arte autentica e soprattutto ci offre una nuova chiave di lettura dell’arte contemporanea russa.

Gli artisti in mostra, come afferma il curatore Marat Guelman, pur non essendo accomunati dall’adesione ad un manifesto, riscoprono tutti l’uso di materiali naturali e semplici che diventano arte tornando natura, rompendo così il confine tra artificiale e naturale; questo approccio rivela alcuni aspetti dell’arte contemporanea russa ponendo interrogativi che creano un dialogo con la storia dell’arte, la responsabilità sociale e il desiderio di trovare la bellezza nella semplicità delle cose.

Gli artisti che espongono sono:
Vladimir Anzelm, Petr Belyi, Aleksandr Brodsky, Blue Noses, Olga & Aleksandr Florensky, Dmitry Gutov, Anna Zhelud, Zhanna Kadyrova, Vladimir Kozin, Irina Korina, Aleksandr Kosolapov, Valery Koshlyakov, Mylo Group, Anatoly Osmolovsky, Nikolay Polissky, Resycle, Yury Shabelnikov, Sergey Shekhovcov, Leonid Sokov, Michail Pavlyukevich & Olga Subbotina, Sergey Teterin, Sergey Volkov

Parallelamente alla mostra, nello spazio café del PAC, verranno esposte venticinque opere fotografiche di Aleksandr Sljusarev (1944-2010), fotografo attivo soprattutto negli anni settanta che ha influenzato molti fotografi russi contemporanei. Sljusarev ha teorizzato e messo in pratica la fotografia analitica o metafisica, nella quale oggetti usuali, prosaici, svelano sensi e significati profondi, mentre la semplicità apparente è il risultato della sua vastissima conoscenza della cultura visiva.

Il progetto è inserito nel quadro delle manifestazioni espositive АРТ-территория Arte Territorio promosso in ambito culturale e finalizzato al richiamo di nuovi investimenti e al miglioramento della qualità della vita nella Regione di Perm.

La mostra è stata realizzata con il contributo di Moneta srl Impianti ed Engineering
e con il contributo di Mont Blanc, Art in Box, Westin Palace Hotel.

Con il patrocinio di:
Consolato della Federazione Russa a Milano
Ministero della Cultura, delle Politiche Giovanili e della Comunicazione della regione di Perm

La mostra sarà accompagnata da un libro-catalogo curato da Perm Museum of Contemporary Art “PERMM”

L’Associazione Italia Russia persegue la strada della promozione di progetti culturali e formativi al fine di favorire la crescente cooperazione culturale ed economica fra l’Italia e la Russia; l’Associazione fin dal 1946 è impegnata in questa direzione, attraverso una collaborazione assidua con enti pubblici e privati presenti sul territorio lombardo e russo.

Il Museo d’Arte Contemporanea di Perm’ è stato fondato nel 2008 grazie al sostegno di Oleg Chirkunov (Governatore della Regione) e di Sergey Gordeev (membro del Consiglio Federale Russo per l’Amministrazione del Governatorato di Perm’). La città rappresenta uno dei più importanti centri economici, industriali e amministrativi della Federazione Russa, anche grazie alla sua posizione privilegiata nella produzione e raffinazione del petrolio.
da www.teknemedia.net


Per quanto riguarda un punto di vista russo sulla mostra

Può un pittore essere moderno ed insieme “russo”?  
Legno, carbone, ferro, petrolio, cartone e  gommapiuma.  «Materia prima. Russkoe bednoe - L`arte povera». Questa e` la particolarita principale della mostra dell`arte contemporanea russa Russkoe bednoe che  non illustra una scuola o un manifesto artistico, ma mette a confronto gli artisti che hanno scelto tali materiali semplici della natura russa.  Nell’ambito dell’Anno della  cultura russa in Italia dal 8 luglio al 11 settembre 2011 il Padiglione d’Arte Contemporanea а Milano ospita la mostra  promossa dal Comune di Milano con il patrocinio del Governatorato della Regione di Perm (Federazione Russa) e dal Consolato  Russo a Milano.  
Dell’evento culturale ci ha parlato il suo curator Marat Ghelman. Al microfono la nostra corrispondente Niva Mirakian.
Corrispondente: Milano e’ stata la terza città, dopo Mosca e Parigi, ad ospitare la mostra Russkoe bednoe. Dopo Milano e’ previsto il passaggio al MoMA di New York. Abbiamo parlato con il curatore della mostra Marat Ghelman - personalità molto nota grazie al suo attivo impegno nella realizzazione di grandi progetti del respiro nazionale e internazionale. Abbiamo chiesto Marat Ghelmandi spiegarci la ragione per cui Milano e’ stata scelta tra tutte le città italiane perlosvolgimento di questa mostra, che ha già avuto un feedback molto positivo nella stampa italiana.
Ghelman: Milano è una città le cui collezioni private vantano molte opere dei pittori dell’arte povera tra cui Janis Kunelis, Mario Merz – pittori che hanno lavorato con materiale povero e sono diventati noti in tutto il mondo. Ecco perché la mostra di Milano è particolarmente interessante, i visitatori confrontano l’arte povera italiana e l’arte povera russa. Per noi era un passo molto rischioso ma il più logico –quello di dimostrare la nostra arte povera nella patria dell’arte povera.  Non me l’aspettavo ma i critici hanno accolto con grande entusiasmo la nostra mostra. Sono già apparsi lunghi articoli al riguardo sul “Corriere della Sera” e “La Repubblica”.
Corrispondente: La rassegna presenta 116 lavori di 23 artisti contemporanei tra i piu significativi della scena russa: grandi istallazioni, sculpture, lavori di videoarte, fotografia e pittura con un omaggio al fotografo Aleksandr Sljusarev. Ogni opera ha le sue origini, la sua storia, però tutte insieme ci offrono una nuova chiave di lettura dell’arte contemporanea russa, dice Marat Ghelman.
Ghelman: Conosco queste opere molto bene già da tempo. Il fatto è che la maggioranza di esse sono state create nell’ambito di altri progetti, tra cui quelli personali. Sono state messe tutte insieme. Qui ci sono dei pittori di incidenza fondamentale per la Russia d’oggi. Sono, in particolare, Alexandr Prodsky, Valera Koshliakov, Petia Belyj, Florensky, “Nasi blu”. Anche se ci alieniamo dalla concezione della mostra stessa e ci immergiamo in ogni singolo progetto, vediamo che è interessante a modo suo. Ma la mostra si distingue innanzitutto per il fatto che gli spettatori hanno la possibilità di individuare i “segni gentilizi dell’arte russa.
Corrispondente: Dottor Ghelman parla dell’obiettivo della mostra presentata  per la prima volta due anni e mezzo fa a Perm,  che secondo lui e’ statо  quello dirompere gli stereotipi verso l’arte contemporanea russa.
Ghelman: È stato un tentativo di chiarire cosa hanno in comune vari pittori russi, nonché il fatto che hanno dei segni comuni formali. In precedenza parlando dell’arte russa i critici internazionali dicevano: è molto intelligente, è molto concettuale, può essere ironica, ma nessuno parlava di cose formali. Risultava che in Russia c’era il seguente antagonismo: o l’arte russa e tradizionale o l’arte moderna che ha a che fare con il contesto internazionale ma è estranea all’arte russa. A questa mostra abbiamo dimostrato per la prima volta che il pittore può essere moderno ed insieme russo. La passione dei russi per i materiali naturali è molto tipica dell’arte russa d’oggi, anzi attualemente è diventata tendenza.
Corrispondente:Il titolo della mostra Materia Prima rimanda al movimento Arte Povera che in Russia e in Italia e’ nato e cresciuto per varie ragioni. Marat Ghelman annalizza le origini dell’arte povera italiana e quella russa.
Ghelman: Quandoil pittore rinuncia ai materiali ricchi, lo fa per determinati motivi. I pittori italiani rinunciavano ai materiali costosi in segno di protesta contro la nuova cultura patinata. I pittori russi  in numerosi casi cominciavano a lavorare con un materiale povero poiché non avevano altre possibilità in questo senso. Per esempio, Serghei Shekhovtsev usava la gommapiuma perché ha un aspetto di marmo. Probabilmente voleva fare le sue opere usando il marmo ma aveva la possibilità di usare solo la gommapiuma. Se i pittori italiani dell’arte povera tentavano di protestare contro l’estetica classica, i pittori russi, al contrario, la amano. È chiaro che un pittore che si trova in mezzo all’architettura classica, tenta di allontanarsi dalla stessa. Per noi, invece, con le nostre città sovietiche, il classicismo è  tutt’oggi attraente. I pittori russi, usando i materiali moderni, il linguaggio mdoerno, sono di gran lungo più “fautori” dell’Italia rispetto agli italiani stessi. Alla mostra sono presentati molti motivi italiani.
Corrispondente: I nostri paesi sono arrivati all’arte povera camminando lungo due strade diverse. Nonostante ciò il punto di partenza era uno: la ricca fantasia. E la ricca fantasia non ha bisogno di materiali sontuosi per realizzarsi, puo’ facilmente esprimersi tramite mezzi semplici, naturali e... poveri.