venerdì 19 agosto 2011

Il "Quarto Stato" al Palazzo del Novecento?


Solo una polemica di Ferragosto?

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La questione dello spostamento della famosa opera di Pelizza da Volpedo nasce pochi giorni fa, con un post sul sito facebook dell'assessore alla cultura Stefano Boeri nel quale viene lanciata la proposta. A prima vista potrebbe sembrare una disputa  tipicamente estiva, come sembra leggersi da alcune dichiarazioni pubblicate da "la Repubblica" degli ex amministratori, per esempio De Corato e, fra le righe, nella più articolata dichiarazione dell'ex assessore alla cultura della giunta Albertini, Stefano Zecchi. In realtà l'idea dell'assessore alla cultura riflette questioni importanti sul rapporto fra il valore dell'arte e il modo con il quale esso è stato affrontato negli ultimi vent'anni dalla città di Milano. 
Ad uno sguardo distratto, il progetto di Boeri sembrerebbe ricordare il modo presuntuoso e arrogante con il quale la classe politica a volte afferma l'esclusività decisionale, anche sui beni della cittadinanza, come il trasloco di un'opera d'arte da un museo all'altro per volontà personale e non collettiva. Questo è il concetto che l'ex assessore alla cultura, Salvatore Carrubba, sembra sollevare in un intervista a"la Repubblica". In realtà se si approfondiscono le motivazioni della nuova proposta di Boeri, ci si può rendere conto dei fondamenti di tale iniziativa:" (Il Quarto Stato ndr.) ...In quella posizione, lungo la rampa di accesso, dietro una vetrata, con uno spazio troppo ridotto per poter percepire la potenza in movimento del dipinto, diventa un piccolo innocuo ornamento...", e poi, "E' stato trasformato in un diorama in vetrina. Non esiste che stia dietro a un vetro e sarà riposizionato in un luogo adatto, dedicato al quadro, aperto al pubblico e senza biglietto, com'era alla GAM (Galleria d'arte moderna di Milano, ndr.)". E', inoltre, la positiva risposta del sindaco di Milano ad evidenziare i caratteri di tale iniziativa: "E' un segnale molto importante perchè un'opera così significativa per la storia del nostro Paese deve essere esposta nella casa di tutti i milanesi. Ci impegniamo a fare in modo che il quadro possa essere collocato in una sala del Comune aperta ai cittadini...". Nelle dichiarazioni dei due esponenti politici, emerge la necessità di una nuova contestualizzazione dell'opera per correggere la fruizione dei valori formali e dall'altra per una questione simbolica, di valore espressivo dell'opera. Quest'ultima accezione è infatti stata colta dall'ex assessore Stefano Zecchi che intravede un senso ideologico dietro a tale proposta.
Ora, a parte la questione dell'onerosità dell'eventuale trasferimento nella Sala Alessi del Comune e di come si ponga il museo stesso vedendosi privato di una sua opera e come sostituirla, mi preme sottolineare altri aspetti. La prima, l'attuale collocazione del Quarto Stato, posto al termine della rampa di accesso del museo come simbolica accoglienza del visitatore, a preludio dei caratteri storici e artistici propri della collezione, è una scelta studiata da Italo Rota durante la ristrutturazione degli spazi dell'Arengario.                                                                              
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E il museo nasce per comunicare tali sedimentazioni storiche della collezione al visitatore: il Quarto Stato è l'opera-manifesto che inaugura il museo in quanto rifletterebbe lo sviluppo del Novecento artistico milanese. Tale assunto è assolutamente opinabile (semmai potrebbe segnare la conclusione di certi valori formali propri del XIX secolo), come già è stato rilevato da altri. Il quadro, per via delle notevoli dimensioni, si presta perfettamente ad uso scenografico: lo spettatore ignaro, mentre è intento ad ammirare la bella rampa d'accesso sulla quale sta salendo, viene colto di sorpresa, vedendolo apparire improvvisamente alla sua sinistra. Il Quarto Stato emerge, inaspettato, dal buio nel quale è immerso e dove dei faretti a bassa illuminazione lo pongono alla nostra attenzione da dietro un'enorme teca di cristallo di oltre cinque metri di lunghezza. In tale contestualizzazione di sapore così scenografico, quasi cinematografico, l'opera però tende a perdere il rapporto con l'osservatore in quanto l'uso di tali effetti, come la penombra e la concentrazione luministica sulla sola opera e, non ultima l'enorme teca protettiva, allontanano il visitatore da quell'intimo rapporto che ognuno è solito creare con l'oggetto che ammira. La teca ci distanzia eccessivamente dal quadro, non permettendoci di osservare i minuti particolari, le asperità materiche della superficie, impedisce di girare liberamente davanti all'opera per via dello spazio ristretto, innalzando il Quarto Stato su di un altare virtuale e irraggiungibile, dove l'ammirazione, per forza di cosa, è data dell'effetto sorpresa al quale la nostra civiltà dell'immagine ci ha abituato, trascurando invece i caratteri scientifici alle quali una corretta esposizione in un museo dovrebbero di norma seguire.  
La seconda questione. Che valore assume un eventuale cambio di collocazione? Pisapia appare entusiasta della proposta. Bisogna ricordare infatti che il quadro venne acuistato dalla città con una sottoscrizione pubblica e che alla fine della guerra il sindaco di Milano Antonio Greppi la espose proprio in Palazzo Marino. Pelizza da Volpedo ha infatti richiamato quel mondo del lavoro (in questo caso agricolo) vittoriosamente in marcia, quegli ideali di fatica, onestà, sobrietà e democrazia al quale fa appello il senso di appartenenza ideale che lega l'elettorato del sindaco. Porre il Quarto Stato all'interno di Palazzo Marino significa allora dare il segno di appartenenza a quel mondo da parte dell'attuale giunta milanese propio nel momento in cui il Comune si trova in estrema difficoltà a causa dell'imminente manovra economica che promette di mettere una vera e propia ipoteca sui progetti di cambiamento nel rapporto con i cittadini e sulle innovative idee di rilancio della città attraverso le quali la nuova giunta avrebbe voluto caratterizzarsi e che ora si teme di non poter porre in essere.
A questo punto risulta evidente come la questione dello spostamento/non spostamento del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo non rappresenti una semplice querelle estiva di politici perditempo quanto l'individuazione culturale e ideologica di un ulteriore campo di scontro politico fra le due forze di sinistra e destra della città. Tra una destra che vede nell'arte una forma di sola spettacolarizzazione, veicolo ideologico verso il futuro tecnologico della nuova Milano da bere nell'epoca della globalizzazione degli anni zero, annunciate dai grattacieli di Citylife o della Regione Lombardia con le loro inedite forme quale riflesso del nuovo slancio econonomico di una supposta nuova tecnocrazia milanese e lombarda. L'attuale collocazione del Quarto Stato nel Museo del Novecento va spiegata quindi all'interno di tale ottica, o cultura, sottostante dei committenti (la giunta Albertini). Il rilievo riservato a tale opera è l'ennesima cartina di tornasole dello strabismo culturale impostoci, dove il privilegio è tutto ottico e prodotto scenografico, come solo una città come Milano è in grado di confezionare, città della moda e quindi del trionfo dell'apparenza e del consumo immediato e superficiale. La genialità della soluzione offerta dal Museo del Novecento è quindi da inquadrare all'interno della cultura milanese che Rota ha ben saputo interpretare. Dunque siamo di fronte anche in questo caso ad una proposta ideologica che con la stessa violenza con la quale si vogliono affermare i nuovi grattacieli, a dispetto della città, dell'ambiente e della volontà dei suoi cittadini, analogamente si è proceduto a strappare alla Galleria d'Arte Moderna della città uno dei suoi quadri più belli per riproporlo, ben confezionato come un abito di Gucci, nel nuovo museo ma sradicato dal contesto delle collezioni lì ospitate. Alla GAM vi era tutta una rete di rimandi continui con l'epoca e le opere presenti, nel Museo del Novecento invece essa non ha rapporti, poichè le opere che accolgono il visitatore una volta superato l'accesso sono le opere futuriste o esempi dell'avanguardia internazionale coeva. Se si fosse trattato di richiamare un contrasto dovuto all'irruenza delle nuove soluzione offerte a distanza di pochi anni dall'Avanguardia a Milano si sarebbe potuto allora utilizzare una qualsiasi altra opera. Ma il nuovo museo aveva bisogno di un richiamo più spendibili in termini di effetto per la glorificazione della giunta promotrice, a poca distanza dall'Expo e si è quindi arrivati a tale soluzione. Ideologica appunto.
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E i risultati infatti evidenziano le contradditorietà insite in queste operazioni, si veda, come ricorda l'articolo de "la Repubblica" più sopra richiamato, il crollo di visitatori nell'arco di pochi mesi, vistosissimo, e certamente non ci si può appellare unicamente alla fine dell'effetto novità/gratuità. Nel museo ci sono evidenti aspetti di difficoltà, negli spazi angusti di diverse sale, nel percorso obbligato di buona parte dell'itinerario, nelle collezioni che, se pur storiche, arrivano a malapena a toccare gli anni Settanta con lacune e vuoti non colmati. Volente o nolente, le collezioni infatti riflettono la fine di una certa borghesia, colta e illuminata che fece grande Milano. Ora invece si è di fronte ad una borghesia che preferisce progettare un nuovo museo di arte contemporanea (MAC progetto Liberskind) - dagli enormi costi di gestione annuale - quando Milano è priva di collezioni storiche di arte contemporanea di valore sul propio territorio che possano esprimere il valore della borghesia attuale.
A questo punto, invece di spostare nuovamente il Quarto Stato, non sarebbe meglio lasciarlo dove si trova ora o, se propio si vuole intervenire dal lato di una correzione della fruizione, non è forse preferibile riportarlo nel suo alveo naturale, vale a dire nella GAM? Non penso che Palazzo Marino sia un luogo di facile accesso più di un museo come afferma Pisapia. La sala Salvini è già destinata a mostre e la sua rutilante decorazione mal si accorderebbe ad un quadro del genere.
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Forse, come già i tecnici del settore hanno già fatto notare (Alessandra Mottola Molfino, Philippe Daverio, solo per citarne alcuni) la questione Quarto Stato e MAC ci dovrebbe portare a riconsiderare il fatto che Milano, come del resto l'intera Italia, si basa su collezioni ospitate all'interno del cosidetto "sistema museale diffuso", vale a dire innumerevoli musei collocati estesamente su tutto il territorio e non concentrato in poche realtà come all'estero. Pensiamo solo ai musei del Castello Sforzesco, la Pinacoteca Ambrosiana, il Poldi Pezzoli, la Pinacoteca di Brera, ecc. e le realtà come la Fondazione Pomodoro, lo Spazio Forma e gli altri piccoli innumerevoli spazi dell'arte contemporanea presenti in città. Dunque, non sarebbe forse meglio ripensare ad una nuova gestione di tali spazi, secondo modalità più innovative, in linea con il nuovo spirito della giunta piuttosto che andare a imporre letture ideologiche, polarizzate e polarizzanti e quindi statiche e inerti come quella proposta da Boeri?

Vince   



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