domenica 21 agosto 2011

...Ancora sul "Quarto Stato" del Museo del Novecento di Milano


...Quando i nodi vengono al pettine

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La polemica avviata dall'assessore alla cultura di Milano Stefano Boeri sulle modalità della collocazione della grande opera di Pellizza da Volpedo cominciano a produrre le prime conseguenze. Le reazioni suscitate dalla proposta, riprese da una serie di articoli apparsi negli ultimi giorni sul quotidiano "la Repubblica", iniziano ad evidenziare questioni più sostanziali, quali un diverso modo di affrontare la cultura da parte della nuova giunta e gli errori nella programmazione culturale degli anni precedenti, fra tutti proprio quella del neonato Museo del Novecento.
Vi propongo allora due articoli apparsi su "la Repubblica", l'intervista a Philippe Daverio sulla "Repubblica" di ieri e un post da un Blog, nei quali vengono illustrati chiaramente quale siano le direttrici culturali che potrebbero aprirsi in seguito al confronto seguito alla proposta di Stefano Boeri. Ecco i Link
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/19/capolavori-dimenticati-sono-altri.html

http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/08/20/news/e_ancora_scontro_sul_quarto_stato_esposto_male_torni_in_comune-20642568/

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=13CPQ9

http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=87334
Buona lettura.

Vince   




                                  
                                                                                                                                                                                                                                      

venerdì 19 agosto 2011

Il "Quarto Stato" al Palazzo del Novecento?


Solo una polemica di Ferragosto?

http://www.pellizza.it/quarto~1.jpg

La questione dello spostamento della famosa opera di Pelizza da Volpedo nasce pochi giorni fa, con un post sul sito facebook dell'assessore alla cultura Stefano Boeri nel quale viene lanciata la proposta. A prima vista potrebbe sembrare una disputa  tipicamente estiva, come sembra leggersi da alcune dichiarazioni pubblicate da "la Repubblica" degli ex amministratori, per esempio De Corato e, fra le righe, nella più articolata dichiarazione dell'ex assessore alla cultura della giunta Albertini, Stefano Zecchi. In realtà l'idea dell'assessore alla cultura riflette questioni importanti sul rapporto fra il valore dell'arte e il modo con il quale esso è stato affrontato negli ultimi vent'anni dalla città di Milano. 
Ad uno sguardo distratto, il progetto di Boeri sembrerebbe ricordare il modo presuntuoso e arrogante con il quale la classe politica a volte afferma l'esclusività decisionale, anche sui beni della cittadinanza, come il trasloco di un'opera d'arte da un museo all'altro per volontà personale e non collettiva. Questo è il concetto che l'ex assessore alla cultura, Salvatore Carrubba, sembra sollevare in un intervista a"la Repubblica". In realtà se si approfondiscono le motivazioni della nuova proposta di Boeri, ci si può rendere conto dei fondamenti di tale iniziativa:" (Il Quarto Stato ndr.) ...In quella posizione, lungo la rampa di accesso, dietro una vetrata, con uno spazio troppo ridotto per poter percepire la potenza in movimento del dipinto, diventa un piccolo innocuo ornamento...", e poi, "E' stato trasformato in un diorama in vetrina. Non esiste che stia dietro a un vetro e sarà riposizionato in un luogo adatto, dedicato al quadro, aperto al pubblico e senza biglietto, com'era alla GAM (Galleria d'arte moderna di Milano, ndr.)". E', inoltre, la positiva risposta del sindaco di Milano ad evidenziare i caratteri di tale iniziativa: "E' un segnale molto importante perchè un'opera così significativa per la storia del nostro Paese deve essere esposta nella casa di tutti i milanesi. Ci impegniamo a fare in modo che il quadro possa essere collocato in una sala del Comune aperta ai cittadini...". Nelle dichiarazioni dei due esponenti politici, emerge la necessità di una nuova contestualizzazione dell'opera per correggere la fruizione dei valori formali e dall'altra per una questione simbolica, di valore espressivo dell'opera. Quest'ultima accezione è infatti stata colta dall'ex assessore Stefano Zecchi che intravede un senso ideologico dietro a tale proposta.
Ora, a parte la questione dell'onerosità dell'eventuale trasferimento nella Sala Alessi del Comune e di come si ponga il museo stesso vedendosi privato di una sua opera e come sostituirla, mi preme sottolineare altri aspetti. La prima, l'attuale collocazione del Quarto Stato, posto al termine della rampa di accesso del museo come simbolica accoglienza del visitatore, a preludio dei caratteri storici e artistici propri della collezione, è una scelta studiata da Italo Rota durante la ristrutturazione degli spazi dell'Arengario.                                                                              
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E il museo nasce per comunicare tali sedimentazioni storiche della collezione al visitatore: il Quarto Stato è l'opera-manifesto che inaugura il museo in quanto rifletterebbe lo sviluppo del Novecento artistico milanese. Tale assunto è assolutamente opinabile (semmai potrebbe segnare la conclusione di certi valori formali propri del XIX secolo), come già è stato rilevato da altri. Il quadro, per via delle notevoli dimensioni, si presta perfettamente ad uso scenografico: lo spettatore ignaro, mentre è intento ad ammirare la bella rampa d'accesso sulla quale sta salendo, viene colto di sorpresa, vedendolo apparire improvvisamente alla sua sinistra. Il Quarto Stato emerge, inaspettato, dal buio nel quale è immerso e dove dei faretti a bassa illuminazione lo pongono alla nostra attenzione da dietro un'enorme teca di cristallo di oltre cinque metri di lunghezza. In tale contestualizzazione di sapore così scenografico, quasi cinematografico, l'opera però tende a perdere il rapporto con l'osservatore in quanto l'uso di tali effetti, come la penombra e la concentrazione luministica sulla sola opera e, non ultima l'enorme teca protettiva, allontanano il visitatore da quell'intimo rapporto che ognuno è solito creare con l'oggetto che ammira. La teca ci distanzia eccessivamente dal quadro, non permettendoci di osservare i minuti particolari, le asperità materiche della superficie, impedisce di girare liberamente davanti all'opera per via dello spazio ristretto, innalzando il Quarto Stato su di un altare virtuale e irraggiungibile, dove l'ammirazione, per forza di cosa, è data dell'effetto sorpresa al quale la nostra civiltà dell'immagine ci ha abituato, trascurando invece i caratteri scientifici alle quali una corretta esposizione in un museo dovrebbero di norma seguire.  
La seconda questione. Che valore assume un eventuale cambio di collocazione? Pisapia appare entusiasta della proposta. Bisogna ricordare infatti che il quadro venne acuistato dalla città con una sottoscrizione pubblica e che alla fine della guerra il sindaco di Milano Antonio Greppi la espose proprio in Palazzo Marino. Pelizza da Volpedo ha infatti richiamato quel mondo del lavoro (in questo caso agricolo) vittoriosamente in marcia, quegli ideali di fatica, onestà, sobrietà e democrazia al quale fa appello il senso di appartenenza ideale che lega l'elettorato del sindaco. Porre il Quarto Stato all'interno di Palazzo Marino significa allora dare il segno di appartenenza a quel mondo da parte dell'attuale giunta milanese propio nel momento in cui il Comune si trova in estrema difficoltà a causa dell'imminente manovra economica che promette di mettere una vera e propia ipoteca sui progetti di cambiamento nel rapporto con i cittadini e sulle innovative idee di rilancio della città attraverso le quali la nuova giunta avrebbe voluto caratterizzarsi e che ora si teme di non poter porre in essere.
A questo punto risulta evidente come la questione dello spostamento/non spostamento del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo non rappresenti una semplice querelle estiva di politici perditempo quanto l'individuazione culturale e ideologica di un ulteriore campo di scontro politico fra le due forze di sinistra e destra della città. Tra una destra che vede nell'arte una forma di sola spettacolarizzazione, veicolo ideologico verso il futuro tecnologico della nuova Milano da bere nell'epoca della globalizzazione degli anni zero, annunciate dai grattacieli di Citylife o della Regione Lombardia con le loro inedite forme quale riflesso del nuovo slancio econonomico di una supposta nuova tecnocrazia milanese e lombarda. L'attuale collocazione del Quarto Stato nel Museo del Novecento va spiegata quindi all'interno di tale ottica, o cultura, sottostante dei committenti (la giunta Albertini). Il rilievo riservato a tale opera è l'ennesima cartina di tornasole dello strabismo culturale impostoci, dove il privilegio è tutto ottico e prodotto scenografico, come solo una città come Milano è in grado di confezionare, città della moda e quindi del trionfo dell'apparenza e del consumo immediato e superficiale. La genialità della soluzione offerta dal Museo del Novecento è quindi da inquadrare all'interno della cultura milanese che Rota ha ben saputo interpretare. Dunque siamo di fronte anche in questo caso ad una proposta ideologica che con la stessa violenza con la quale si vogliono affermare i nuovi grattacieli, a dispetto della città, dell'ambiente e della volontà dei suoi cittadini, analogamente si è proceduto a strappare alla Galleria d'Arte Moderna della città uno dei suoi quadri più belli per riproporlo, ben confezionato come un abito di Gucci, nel nuovo museo ma sradicato dal contesto delle collezioni lì ospitate. Alla GAM vi era tutta una rete di rimandi continui con l'epoca e le opere presenti, nel Museo del Novecento invece essa non ha rapporti, poichè le opere che accolgono il visitatore una volta superato l'accesso sono le opere futuriste o esempi dell'avanguardia internazionale coeva. Se si fosse trattato di richiamare un contrasto dovuto all'irruenza delle nuove soluzione offerte a distanza di pochi anni dall'Avanguardia a Milano si sarebbe potuto allora utilizzare una qualsiasi altra opera. Ma il nuovo museo aveva bisogno di un richiamo più spendibili in termini di effetto per la glorificazione della giunta promotrice, a poca distanza dall'Expo e si è quindi arrivati a tale soluzione. Ideologica appunto.
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E i risultati infatti evidenziano le contradditorietà insite in queste operazioni, si veda, come ricorda l'articolo de "la Repubblica" più sopra richiamato, il crollo di visitatori nell'arco di pochi mesi, vistosissimo, e certamente non ci si può appellare unicamente alla fine dell'effetto novità/gratuità. Nel museo ci sono evidenti aspetti di difficoltà, negli spazi angusti di diverse sale, nel percorso obbligato di buona parte dell'itinerario, nelle collezioni che, se pur storiche, arrivano a malapena a toccare gli anni Settanta con lacune e vuoti non colmati. Volente o nolente, le collezioni infatti riflettono la fine di una certa borghesia, colta e illuminata che fece grande Milano. Ora invece si è di fronte ad una borghesia che preferisce progettare un nuovo museo di arte contemporanea (MAC progetto Liberskind) - dagli enormi costi di gestione annuale - quando Milano è priva di collezioni storiche di arte contemporanea di valore sul propio territorio che possano esprimere il valore della borghesia attuale.
A questo punto, invece di spostare nuovamente il Quarto Stato, non sarebbe meglio lasciarlo dove si trova ora o, se propio si vuole intervenire dal lato di una correzione della fruizione, non è forse preferibile riportarlo nel suo alveo naturale, vale a dire nella GAM? Non penso che Palazzo Marino sia un luogo di facile accesso più di un museo come afferma Pisapia. La sala Salvini è già destinata a mostre e la sua rutilante decorazione mal si accorderebbe ad un quadro del genere.
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Forse, come già i tecnici del settore hanno già fatto notare (Alessandra Mottola Molfino, Philippe Daverio, solo per citarne alcuni) la questione Quarto Stato e MAC ci dovrebbe portare a riconsiderare il fatto che Milano, come del resto l'intera Italia, si basa su collezioni ospitate all'interno del cosidetto "sistema museale diffuso", vale a dire innumerevoli musei collocati estesamente su tutto il territorio e non concentrato in poche realtà come all'estero. Pensiamo solo ai musei del Castello Sforzesco, la Pinacoteca Ambrosiana, il Poldi Pezzoli, la Pinacoteca di Brera, ecc. e le realtà come la Fondazione Pomodoro, lo Spazio Forma e gli altri piccoli innumerevoli spazi dell'arte contemporanea presenti in città. Dunque, non sarebbe forse meglio ripensare ad una nuova gestione di tali spazi, secondo modalità più innovative, in linea con il nuovo spirito della giunta piuttosto che andare a imporre letture ideologiche, polarizzate e polarizzanti e quindi statiche e inerti come quella proposta da Boeri?

Vince   



martedì 2 agosto 2011

RassegnArte - di martedì 2 agosto 2011

Fotografia a Milano anche in agosto
L'estate è proprio arrivata caldo record nel weekend
Nonostante si ripeta ogni anno da diverso tempo la necessità di incentivare la vita culturale milanese anche in fase estiva, l'offerta di mostre a Milano anche quest'anno risulta praticamente nulla. Solo dal punto di vista della fotografia è presente qualche offerta, nel Museo Diocesano e allo Spazio Forma. 

Giorgio Majno Ritratti
Il Museo diocesano, all'interno dell'iniziativa Sere d'estate, ospita una rassegna di opere fotografiche in b/n di Giorgio Majno "Ritratti " dove vengono accostati in modo originale tematiche di tipo naturalistico a ritratti realizzati nel corso di dieci anni di attività. Come di abitudine, qui di seguito, riportiamo un brevissimo commento sulla mostra.

La ricerca di Giorgio Majno indaga il tema della bellezza, che non coincide con l’idea di apparenza, bensì con quella di equilibrio e di armonia, nell’analisi meticolosa di tipologie umane e vegetali. Il rapporto con la natura è essenziale per la sua indagine: i protagonisti dei ritratti fotografici in mostra sono sia persone che elementi naturali, che hanno dignità pari a quella dei soggetti tradizionali di questo genere.
Le opere di Giorgio Majno non sono, dunque, nature morte. In esse è possibile rintracciare la presenza di vitalità e di energia di cui tanti ritratti canonici sono privi.
Nasce nel 1954 a Milano, dove vive e lavora come fotografo professionista.
Attualmente è docente presso la Facoltà di Design ed Arti dell’Università Iuav di Venezia, sede di San Marino, presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e presso Spazio Forma, centro internazionale di fotografia di Milano.

da www.museodiocesano.it

"Ritratti ", Museo Diocesano, C.so di Porta Ticinese 95, dalle h.19 alle 24.00, fino al 3 settembre 2011

lunedì 1 agosto 2011

Viaggi. I nuovi racconti di Rumiz: inseguendo i luoghi perduti

Una mappa dei luoghi perduti attraverso gli itinerari di Paolo Rumiz

Rincomincia sulle pagine della rubrica di R2 di Repubblica i resoconti dei viaggi del giornalista. Questa volta, Rumiz ci conduce sulle tracce dei luoghi più improbabili della nostra penisola e non solo, quali "rocche abbandonate, fabbriche arruginite, paesaggi dimenticati ", come la prima tappa di questo itinerario, a Montevergine (Avellino), ex base Nato smantellata e caraterizzata da una foresta di antenne, ripetitori, impianti trasmettitori che nel loro insieme ricordano la visione sbucata improvvisamente dall'episodio di una fiaba oscura. Paolo Rumiz è un noto giornalista di Repubblica, già reporter durante il conflitto jugoslavo, nell'ultimo decennio ha sviluppato un giornalismo di viaggio alternativo, basato sugli itinerari che sappiano riflettere contenuti inerenti al nostro passato e sui luoghi meno considerati dal turismo ufficiale che riconducano all'essenza di "quel " territorio e dei loro abitanti, fatto di movimenti lenti e sguardi profondi. Il suo riflette un viaggiare consapevole del terreno che si calpesta, capace di restituire non solo l'autenticità di situazioni storiche e culturali e un modo di guardare al "territorio " nell'accezione più ampia del significato, più completa, con uno sguardo e parole che sanno legare il paesaggio alla storia e al sapere locale e alle sue radici, contro il modo di viaggiare e di guardare, frettoloso e superficiale, indifferente alle comunità che abitano i propi luoghi proposto nei nostri giorni.  
La prima puntata è iniziata ieri e si dipanerà quotidianamente fino al 26 di agosto. Di seguito vi propongo uno stralcio dal primo reportage e un video. Buona lettura.
Vince


 Video - intervista a Paolo Rumiz tratto da You tube

Dove si racconta quando, come e perché è nata l'idea di questo viaggio e della "mappa dei luoghi perduti" che lo ha reso possibile. E si irrompe nel primo di questi luoghi, l'ex base Nato di Montevergine, in Campania: una selva di torri di metallo abbandonate, non segni di una civiltà estinta ma resti parlanti del nostro secolo

Il temporale stava arrivando e noi ci eravamo persi in un labirinto di strade sterrate. Bisognava fare in fretta perché la cima del Monte Partenio – un complicato saliscendi coperto di selve - si stava trasformando in acchiappafulmini. Eravamo già sul punto di scappare quando, in cima a una salita, a quota 1200, vedemmo un cancello arrugginito cigolare nel vento. Andammo a vedere e restammo senza fiato. Oltre quel portale semiaperto iniziava una strada in discesa con doppio guard-rail. E lì in fondo, tra le nubi al galoppo, c'era una spianata aperta sul nulla, coperta di enormi, nude piattaforme di cemento e strani muretti semicircolari.

Sembrava il cerchio del sole di Stonehenge, un tempio incaico per sacrifici umani. Invece era l'ex base Nato di Montevergine, il nido smantellato dei radar della Sesta Flotta, l'occhio dell'America sul Mediterraneo. Esattamente quello che cercavamo. Nemmeno Marco, che era del posto, c'era mai arrivato ed era, come noi, senza parole. Gli americani avevano portato via tutti i loro impianti, e il luogo, riconsegnato alla natura, aveva assunto una forza preistorica, quasi minerale. Verso ovest, tra gli squarci di nebbia, oltre il querceto nella tempesta, comparivano la piana di Nola e la Valle Caudina. Napoli era invisibile nella pioggia.

Fu allora che venne la fatamorgana. Tra un sipario e l'altro di nubi comparve una cresta dentata come di stegosauro, e poi un'altra ancora. Erano colline irte di antenne, parevano le guglie del duomo di Milano, e in quel clima da poltergeist – stava grandinando - la cresta del Partenio, con i suoi luoghi sacri in contatto da millenni con la Dea Madre, ora si svelava coperta di una foresta pluviale di ripetitori, attivi o dismessi. Una montagna di ferro e ruggine dove il rapporto col cielo continuava sotto forma di una tempesta elettromagnetica che additava un'ombra terribile sopra di noi.

Non avremmo potuto scoprire quel luogo in un momento più fantasmagorico. La base Nato era vuota, ma il resto delle antenne estinte era lì, tra le nubi, con ancora appesa la targa dell'esercito, della polizia, delle poste o di varie televisioni. Ci si aprì un mondo. Torri di metallo abbandonate da non più di dieci anni friggevano nel temporale come gabbie di Faraday. Una montagna di ferri contorti come ramponi sulla gobba di un capodoglio friggeva nel temporale e urlava verso il cielo chissà quale messaggio. E noi ci arrampicammo nel labirinto, passammo liberamente vertiginosi ballatoi, sentimmo il vento sibilare in vecchie strutture paraboliche, oltrepassammo squarci di filo spinato, calpestammo piattaforme di cemento coperte di muschio e vetri rotti, sfiorammo pannelli elettronici spolpati dai vandali, passammo sotto torrette di guardia perfettamente vuote e indecifrabili totem d'acciaio. Non erano segni di una civiltà estinta ma resti parlanti del nostro secolo.

                                                            *    *    *
Fu allora che pensai alla prima volta in cui avevo sentito delle presenze in una rovina abitata dal vento. Era successo in Grecia nel 2004. Ero solo, e non so cosa mi avesse preso di bivaccare sui faraglioni di Zante, nella chiesa di Aghios Andreas semidistrutta da un terremoto negli anni Cinquanta. C'era solo un cartello stinto di legno a indicarla, ma egualmente ero sceso a piedi per un sentiero da capre. Alcune edicole con piccole icone e lumini punteggiavano la strada nel tramonto. Portavano nomi di santi – Elia, Dionisio, Dimitri o Maria – che nascondevano malamente gli dèi che li avevano preceduti. Forse per questo richiamo pagano ero stato attratto dal luogo. Le pietre appese al precipizio mi parlavano.

Tirava vento, l'ultimo sole affondava in un mare omerico “color del vino” illuminando il Santissimo oltre i resti dell'iconostasi, e io avevo pensato di godermi quelle magnifiche rovine nella certezza di una pace assoluta. Avevo tirato fuori dal sacco pomodori, pane e formaggio greco, ci avevo aggiunto capperi selvatici cresciuti su un muretto sbilenco, e dopo un sorso di retsina mi ero messo ad aspettare il silenzio. Ma il silenzio non veniva. Era una notte dannatamente animata. Grilli, cani lontani, asini, capre, fruscii nella boscaglia. E poi quella densità pazzesca di oscuri dei-guardiani infrattati come fauni tra i corbezzoli e i ginepri.

Verso mezzanotte mi accorsi che un San Basilio mi guardava in silenzio. La luna era sorta dalla montagna e attraverso il tetto sfondato del monastero illuminava un affresco pieno di santi. Dal mio sacco a pelo vidi una processione uscire dal buio e farsi strada verso l'uscita. Eusebio, Timoteo, Giovanni Crisostomo e altri andavano sotto le stelle verso il portale aperto sullo Jonio immenso e nero. L'ultimo era Basilio, che roteava gli occhi infossati. La luna aveva ridato colore all'affresco sbiadito dalle intemperie, e i gerarchi erano là, terribili, schierati come i dignitari di Bisanzio nel mosaico di Sant'Apollinare a Ravenna.

Non avrei mai più visto una notte simile. Presi freneticamente appunti fino all'alba. Scrissi: “Mantide religiosa, un geco che tenta di prenderla. Geco che batte in ritirata, lancia il suo sordo richiamo. Colonna di formiche illuminata dalla luna. Brucare di capre. Cane color del miele entra nella chiesa, mi annusa, poi mi si accuccia vicino e si fa carezzare”. E ancora: “Vento sibila tra le pietre come un'arpa eolica. I santi tornano nel buio. Luna scende a perpendicolo nello Jonio color zinco. Dormiveglia con litanie e parole greche antiche, Anthropos, Ouranòs. Primi galli sulla montagna, scricchiolio delle pietre all'alba”. Le vecchie pietre parlavano, ne ero sicuro. Non occorreva che fossero abbandonate da secoli. Pochi anni bastavano per instaurare un rapporto. Era sufficiente che il vento ne diventasse inquilino.
di Paolo Rumiz,  "Le case degli spiriti ", in R2 di Repubblica del 31 luglio 2011