Consiglio caldamente la lettura di questa lucida analisi, critica
(finalmente!), sul nuovo allestimento della Pietà Rondanini e il suo
"museo". In "Il Giornale dell'Architettura.com"
http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2015/5/124318.html
Gran Caffè Rondanini: uno schiaffo all'eredità del progetto moderno milanese
Riflessioni (poco rassicuranti) in seguito alla spostamento della
Pietà nell'Antico ospedale spagnolo (allestimento di Michele De Lucchi)
dal Castello Sforzesco, dove è in parte smantellato l'allestimento dei
BBPR
MILANO. Qualche riflessione a margine dell’incontro del 5 maggio che ha aperto il programma «Milano capitale del moderno», rassegna del Padiglione Architettura Expo 2015
presso il grattacielo Pirelli a cura di Lorenzo Degli Esposti
nell’ambito di «Expo 2015 belle arti», curata da Vittorio Sgarbi per
conto di Regione Lombardia in collaborazione con la Triennale di Milano
che si snoderà per tutta la durata della manifestazione (www.padiglionearchitettura.it).
Dopo la padiglionite architettonica che ha colpito Milano,
espressa in un’esplosione di dehors e bistrot che hanno invaso piazze e
portici ingrassando i plateatici comunali, il panorama dei musei
milanesi si è arricchito di una nuova tipologia di contenitore per
arginare l’orgia di spazi post funzionalisti, archeologie industriali,
loft e hangar: il museum minimum. Ecco la risposta pubblica alle fondazioni private:
ricordiamola come il frutto della più avanzata sperimentazione
dell’ufficio marketing territoriale, in collaborazione dell’Assessorato
alla cultura trasformato per l’occasione in quello alla propaganda
grandi eventi mediatici, ai tempi guidato dal telegenico Stefano Boeri.
Questi aveva lanciato l’idea stravagante di trasferire temporaneamente
la Pietà Rondanini nel carcere di San Vittore, naturalmente a spese dei
BBPR e del loro progetto. Il tutto per fare a gara con altre operazioni
spericolate di marketing virale estremo, come l’ortobotanica genetica
della “Vigna di Leonardo” di Coldiretti, che inseguendo Jurassik Park ha
invaso la casa degli Atellani progettata da Piero Portaluppi con la
clonazione della malvasia di Leonardo (!). Vivremo dunque con nostalgia e
commozione il ricordo delle romantiche operazioni di un sobrio e
raffinato pioniere come Marco Goldin, che ha come unica colpa di
riempire le proprie tasche e le location via via scelte con
gettonatissime mostre temporanee pop dai titoli a volte un po’
dissacranti come Tutankhamon Caravaggio Van Gogh, La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento.
Nel plauso generale, sono invece passate quasi inosservate, se non per
una estesa agguerrita truppa di specialisti trasversali e bipartisan
ormai incattiviti (da Vittorio Sgarbi a Philippe Daverio, passando per
Jacopo Gardella fino a Giancarlo Consonni l’elenco è lunghissimo) le
prove, sempre meno temporanee, e ben più costose, degli allestimenti
pasticcioni e futuristi dei musei pubblici milanesi: un esempio per
tutti, la sistemazione in un apposito “acquario” del Quarto stato di Pellizza da Volpedo nel Museo del Novecento.
Infine, oggi,
possiamo finalmente dirci orgogliosi dell’apertura, all’interno
dell’Antico ospedale spagnolo, del nuovo “minimuseo”, dove la Pietà
Rondanini è incollata con l’attak su un immondo cilindro metallico
verniciato a scomparsa. Il cilindro, fatto in Giappone con la
complicità delle ingegnerie politecniche, a monito delle un tempo
gloriose industrie metalmeccaniche Ansaldo, Magneti Marelli e Alfa
Romeo, dovrebbe proteggere la Pietà dalle vibrazioni e dai terremoti
(?). Esso inaugura l’era del post-design milanese. Sale dalle viscere
del pavimento e pare suggerire un movimento rotatorio (che non c’è, ma
s’immagina): una soluzione che riesce a riabilitare perfino il
trampolino disegnato da Carlo Aymonino per la statua equestre di Marco
Aurelio ai Musei Capitolini. Come abbia fatto Michele De Lucchi, che tutti noi amiamo se non altro per la lampada Tolomeo, a fingere di non vedere questo obbrobrio resta un mistero inesplicabile. La
Pietà, abbandonata crediamo malvolentieri l'ara funeraria romana di
epoca traianea che fungeva da basamento nella Sala degli Scarlioni allo
Sforzesco, nella sua nuova sede cerca, annaspando disperatamente, di
spiccare il volo appoggiandosi nel vuoto, sostenuta solo dalle
impassibili luci infernali che tolgono ombra e profondità al modellato e
trasformano la cruda superficie dirozzata, che ancora chiama la mano di
Michelangelo, in una calda nube di pixel evanescenti: gli
stessi principi espositivi con cui si presenterebbe la nuova vasca da
bagno in Corian di Karim Rashid al Salone del mobile. Non per niente,
per fare breccia nel pubblico colto, si è deciso di puntare sugli slogan
e sulle grandi opere, a dispetto dei sistemi, dei musei e delle
raccolte, per fare cassa e grandi numeri, in ossequio al paternalismo
iconostatico che vuole l’associazione tra il capolavoro e il successo:
Leonardo e Michelangelo come Zanetti e Costacurta. Una tecnica già
sfruttata da banche e fondazioni in una purissima disinvolta strategia
di product placement e di brand management ben poco consona al
patrimonio culturale civico inteso come bene comune. Sarà forse che i
grandi allestimenti pubblici non ce li possiamo più permettere e l’unico
progetto organico museale allestito all’italiana come volevano i grandi
maestri dello stile è quello dell’Opera del Duomo di Guido Canali,
costato ben 12 milioni di euro e 8 anni di lavori?
Come
mastro Geppetto, il fabbrile e onnipresente De Lucchi è diventato un
Figaro che, giunto all’acme della carpenteria, viene chiamato ormai per
fare la messa in piega a tutto: dal Brand Milano, all’Expo,
alla Triennale. Come finisce ormai lo sappiamo: palcoscenico in doghe di
legno a correre (a Venezia ne hanno già subito le conseguenze Palladio e
Veronese alla Fondazione Cini come a Milano il Castello Sforzesco e
Michelangelo); una soluzione riproposta per palazzo Citterio, la Villa
reale di Monza, l’Unicredit Pavillion, il Padiglione Zero dell’Expo;
insomma dappertutto; una cifra stilistica che rasenta il tic o
l’esclusiva per Federlegno? Complici le quote del pavimento, la
soluzione qui nell’Ospedale spagnolo risulta più posticcia che altrove,
caricandosi di sinistri dejà vu di sgraziate parrocchiali poi
ammodernate alla brianzola con le lacune degli affreschi rifinite,
mentre l’innesto del “museo” nell’ex nosocomio risente il rigetto della
troppo funzionale e scontata distribuzione dei flussi attraverso dei
veri e propri corpi estranei (il ricevimento e la bussola di uscita).
Alla fine rimane la fastidiosa sensazione che Paganini si ripeta fino
alla noia con soluzioni formali e di arredo già viste altrove (Villa
Reale di Monza, Gallerie d’Italia, ecc.), così come di un lavoro fatto
con la mano sinistra. Gli ambienti non si fondono ma confondono; più che
di un dialogo aperto occorre parlare di monologo consolatorio del
contemporaneo in ossequio al fatal ciabattare turistico al posto della
dell’ammirabile e sofferto dialogo polifonico (forse fin troppo elitario
per i gusti di oggi…) del moderno con l’antico dimostrata dai BBPR con
l’allestimento delle sale del Castello Sforzesco nel 1954-56.
Già,
confrontarsi con i maestri del recente passato… Un problema in meno se
andiamo avanti così: allo Sforzesco si è anche smantellata la Sala delle
Asse, che ripensava il modello della boiserie ottocentesca, vivificato
attraverso i mobili e le librerie di Franco Albini. Ora un
televisore curvo da 40 pollici occupa lo spazio che fu della Pietà
Rondanini nella delicata abside in pietra serena, concludendo la
sinfonia milanese orchestrata da Banfi Peressutti Belgiojoso e Rogers
con una sonora pernacchia. Così muore, perso per sempre il
racconto laico del museo civico dei BBPR tanto faticosamente raccolto
intorno al dialogo antico e nuovo impastato con la memoria civile e i
dolorosi ricordi della guerra che finiva nella raccolta abside da
meditazione come epilogo di un esaltante percorso di invenzioni
progettuali, troppe volte compromesso dalle soluzioni temporanee e dalla
scarsità di manutenzione e attenzione. Gli allestimenti storici, specie
quelli moderni, presentano senz’altro un interesse pari e spesso a
volte maggiore, in quanto rarità, delicatezza e sensibilità, delle
stesse architetture.
L’importanza indiscutibile
dell’interesse storico e culturale dell’allestimento BBPR, come esempio
di grande museo pubblico italiano del dopoguerra, anche in rapporto con
altre esperienze italiane coeve - pensiamo ad Albini e Scarpa - o
internazionali come i grandi musei americani, è stato ampiamente
rinnegato dall’attuale processo di rinnovamento museale del Castello
Sforzesco. Come lo showroom Olivetti a New York
irrimediabilmente perduto, ora tale eredità è stata sfregiata: in base a
quali principi e obiettivi e nell’ambito di quali strategie e politiche
di tutela e valorizzazione il Ministero legittima queste operazioni?
Per un progetto museografico di questa rilevanza non sarebbe d’obbligo
la scelta di considerarlo non modificabile (e meritevole di una tutela
integrale), di risolvere le nuove acquisizioni e comunque i cambiamenti
di ordinamento con altri spazi che non lo modifichino, ma con esso siano
organicamente collegati, nonchè di destinare nuove risorse a un
progetto di tutela e valorizzazione che abbia come prescrizione e
principale obiettivo la sua conservazione e conoscenza integrale e
riservare al progetto contemporaneo il compito, umile e difficile, di
aggiornarne la fruibilità e i contenuti nella prospettiva della
conservazione critica, elaborando tutte le nuove soluzioni originali e
funzionali in linea con le “preesistenze ambientali”, come avrebbe
voluto Ernesto Nathan Rogers? Alla luce di quello che è successo, come
possiamo considerare efficace la prescrizione di “vincolare”
l’allestimento museale della Sala degli Scarlioni, in relazione ai
famigerati “70 anni” attualmente previsti dal Codice dei Beni culturali?
La procedura utilizzata in questo caso dalla Soprintendenza di Milano e
dal Comune è da considerarsi un modello ortodosso ed esemplare per una
modifica così sostanziale? Può una così importante decisione passare
attraverso un iter di procedure “semplificate” e pretesti occasionali di
promozioni ed eventi (come l’idea del prestito temporaneo), attraverso
espedienti, escamotage, contorcimenti e deroghe al Codice? Se la
suddetta procedura è stata quella per l’autorizzazione ai “prestiti” e
non quella per uno spostamento definitivo con la modifica di un’opera
architettonica, che forza potrebbe avere ora una prescrizione che
imponga il ripristino dello stato pregresso della scultura nella Sala
degli Scarlioni, e che cosa ne sarà di tutto il resto, ora che Sagunto è
stata espugnata?
Indietro tutta
Ritornando
all’incontro del 5 maggio al Pirellone, dopo un preliminare intervento
telefonico di Francesco Scoppola, hanno preso la parola Alberico
Barbiano di Belgioioso, Silvano Tintori, Emilio Battisti, Amedeo
Bellini, Maria Teresa Fiorio, Vittorio Sgarbi, Philippe Daverio, Augusto
Rossari e Carlo Bertelli. Un imbarazzato Rossari, tra i primi a
denunciare lo sconcio proposito di vincolare l’allestimento della Sala
degli Scarlioni, si è aggrappato disperatamente alla pilatesca
prescrizione allegata al parere positivo del soprintendente Artioli di
“conservazione della quinta”(?) in pietra serena, per chiedere di
rimetterci almeno la copia in marmo fatta per le prove, consapevole
dell’incombere del progetto di Vittorio Gregotti, a cui è stato già
affidato l’incarico diretto per una revisione completa della Sala, nella
quale dovrebbero essere riallestiti i bassorilievi del Bambaia con la
complicità di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. Si avvia così un’ultima
fase, quella definitiva e terminale, di dismissione dell’allestimento
del Castello per come l’avevamo ereditato, operazione che renderà
impossibile recuperarne la fisionomia e l’identità della sua fase
moderna nella chiave di una lettura della continuità delle ricerche.
Come è possibile che una tale irresponsabile scelta passi attraverso una
pletora d’iniziative smozzicate, disorganiche e disgiunte: restauro del
rivellino a cura di David Chipperfield e De Lucchi, Sala degli
Scarlioni a Gregotti, a chi toccherà allora la Sala delle Asse? Un
processo che pare privilegiare i lavori al progettista e, buon ultimo,
al progetto. Possibile che nessuno tra direttori di museo, assessori e
soprintendenti ritenga possibile differire una questione culturale così
rilevante, e che il Museo abbia preso la strada non di potenziare e
rivedere, come più volte sottolineato anche da Daverio, le collezioni e
il layout delle sale che reclamano da sempre una revisione e
valorizzazione museografica piuttosto che incanaglirsi per colpire al
cuore il progetto che rappresenta per Milano capitale del moderno quello
che Castelvecchio e Scarpa rappresentano per Verona? Sgarbi ha avuto
gioco facile a stilare una vera e propria dichiarazione di guerra
rendendo esplicito quanto molti avevano da più parti e in varie sedi
dichiarato o pensato: come è stato possibile trattare questo caso alla
stregua di un qualsiasi evento di ordinaria amministrazione? Ed è ancora
possibile, almeno, negare l’approvazione a quel progetto per la cui
attuazione non si è pensato neanche di avere un parere obbligatorio
vincolante del Consiglio superiore dei Beni culturali che ora, sul fuoco
delle polemiche incandescenti, ci arriva indirettamente dalle pagine
dei giornali attraverso gli articoli a difesa di Luca Molinari e di
Tomaso Montanari? Un’eventuale approvazione per la sua definitiva
destinazione c’è già stata o ci deve ancora essere? Il parere non
dovrebbe essere legato a un progetto definitivo e complessivo che sia in
grado di dimostrare l’organicità e sistematicità delle relazioni delle
parti con il tutto, attraverso procedure condivise, pubbliche e
trasparenti anche nella scelta del progettista e del progetto.
Considerando quanto sopra, è possibile esprimere un giudizio, perlomeno
di censura (indipendentemente dalla qualità dell’eventuale progetto,
come quello, poi accantonato, di Alvaro Siza, ricordato da Battisti),
nei confronti di tutti gli interventi di questo tipo? Procedure che per
giunta possono essere estese ad altre parti o ad altre occasioni, tanto
più una volta che si sia creato un precedente che le legittimi come
pratica corrente? E questo non è tanto più necessario in contesti
culturalmente difficili e delicati come quelli del progetto moderno, che
iniziamo solo adesso a storicizzare al di fuori della categoria del
contemporaneo. Non siamo ancora troppo legati alla concezione del
capolavoro unico rispetto alla sua relazione con il contesto, con la
tradizione e con la sua storia della conservazione? E pensiamo
indispensabile non appiattirsi alla rincorsa di un ruolo che già
fondazioni e musei privati stanno interpretando egregiamente: quello di
inseguire la moda e il pubblico (Hangar Bicocca, Fondazione Prada,
Fondazione Trussardi), piuttosto che quello di fissare nuovi standard di
comfort e di dotazioni (Gallerie d’Italia), di fornire una visione
alternativa e identitaria rispetto a quella viziata e sbilanciata da
pratiche di marketing e di fruizione di massa, dettate più da
considerazioni meramente economico-commerciali piuttosto che legittimate
da nuove opportunità storico-critiche o da progetti organici. Progetti
troppo spesso visti solo come occasioni per la proliferazione
ingiustificata di nuove occasioni di spesa che trovano la loro
consacrazione esclusivamente in quanto legate alla fama del
“capolavoro”. Si è parlato, nel caso di un ripristino, della
possibilità di utilizzare la copia della statua esistente della Pietà, o
per collocarla nell’Ospedale spagnolo riportando al suo posto
l’originale, o anche, come pietoso ripiego, per collocarla nella Sala
degli Scarlioni, al posto dell’originale, perlomeno per testimoniare una
soluzione progettuale storica e “gloriosa”; l’utilizzazione di copie in
allestimenti museali è già stata applicata con successo (vedi Londra
Victoria & Albert Museum o la copia delle nozze di Cana del Veronese
per la Fondazione Cini), ed è sempre stata la base di un preciso
progetto di valorizzazione e fruizione contestuale.
In questo
caso, ancora una volta è in gioco l’identità del progetto moderno, che a
Milano tutti dicono di amare e apprezzare, salvo poi registrarne il
sacrificio indispensabile in nome delle ragioni progressive e delle
economie di scala. Il Pirelli ha rischiato, la torre Galfa è
tuttora in pericolo, l’istituto Marchiondi Spagliardi attende invano,
per parlare solo delle celebrities: stilare un elenco sarebbe
lunghissimo, ma occorre uscire dalla logica del vincolo come obbligo e
come laccio da cui divincolarsi, per approdare a una visione in linea
con la difesa dei diritti delle minoranze. Il progetto moderno, una
volta tramontato il sogno dell’egemonia razionalista, attende forse ora
per la sua sopravvivenza una nuova Carta dei diritti del Moderno, associata a un disciplinare di Progetto a denominazione di origine controllata e protetta che
faccia conoscere e amare questa esperienza cruciale per capire il
Novecento della città europea nel suo rapporto con la storia: così si
potrà rafforzare l’identità di Milano capitale del moderno
come meta obbligata del turismo colto. Una strada su cui incamminarsi,
che pensiamo più solida rispetto alle prove, fin qui abbastanza
deludenti, di gran parte delle abborracciate esperienze, sia pubbliche
che private, volte a ricostruire una nuova identità contemporanea
partendo da fumosi propositi o proposte speculative travestite da
progetti urbanistici. Forse, questa volta, la storia potrebbe veramente
farci da guida.
BBPR addio?
Trasferito lo
storico studio che dal 1939 era in un’ala dei Chiostri di San
Simpliciano da loro restaurati, nonostante i due convegni, libri e vari
contributi e ricerche recenti, il rapporto di Milano con i BBPR è per lo
meno contraddittorio se non schizofrenico: primo studio italiano che
prende la via dell’internazionalizzazione e della multidisciplinarità
cercando di confrontarsi sempre con le proprie radici e identità
culturali senza perdere la dimensione tipica del progetto come
invenzione originale, mentre il loro progetto simbolo, la Torre Velasca,
è attualmente interessato da un difficile e ambizioso progetto di
conservazione e rifunzionalizzazione, riceve con la vicenda della Pietà
Rondanini e con lo smontaggio della Sala delle Asse al Castello
Sforzesco un altro schiaffo alla tradizione di identità civile e morale
che ha sempre cercato di incarnare. Gianluigi Banfi è morto ad
Auschwitz, Lodovico Belgiojoso è stato un superstite e testimone,
Ernesto Rogers una mitica figura di primo piano del milieu intellettuale
europeo, Enrico Peressutti, amico di Le Corbusier, docente al
Politecnico... Lo studio milanese è stato l’incubatore di almeno due
generazioni di architetti e cultura architettonica, a partire dal figlio
Alberico, anche lui professore al Politecnico, che ne cura oggi la
complessa eredità nel solco della tradizione e ne prosegue l’attività.
La loro sigla ha formato personalità come Vittorio Gregotti, Roberto
Masiero, Aldo Rossi. Direttamente o indirettamente nessuno può dirsi
estraneo alla cultura forgiata all’ombra della Torre Velasca e alla
cifra di un moderno che ha sempre creduto di trovare all’interno di una
ragione cosmopolita e socialdemocratica le basi per un’identità
condivisa del progetto come progresso sociale e civile. Ma questo non ha
impedito, dopo la perdita dello straordinario showroom Olivetti sulla 5° strada a New York (1959), opera che meriterebbe una replica fedele in qualche sala di museo del design), la distruzione del padiglione “Il labirinto dei ragazzi” alla X Triennale di Milano (1954), la distruzione del restauro e arredamento della palazzina Mayer con i graffiti di Albe Steiner in via Bigli a Milano (1960); mentre il Memoriale italiano nel campo di concentramento di Auschwitz
(1979), dopo essere stato chiuso 3 anni fa è minacciato di distruzione
dalla direzione del campo se non viene riportato in Italia. A tutto
questo si aggiunge la recente completa modifica del piano terra dell’edificio tra corso Vittorio Emanuele e via Pasquirolo a Milano (1970).
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