domenica 31 maggio 2015

Consiglio caldamente la lettura di questa lucida analisi, critica (finalmente!), sul nuovo allestimento della Pietà Rondanini e il suo "museo". In "Il Giornale dell'Architettura.com"
http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2015/5/124318.html


Gran Caffè Rondanini: uno schiaffo all'eredità del progetto moderno milanese 

 

Riflessioni (poco rassicuranti) in seguito alla spostamento della Pietà nell'Antico ospedale spagnolo (allestimento di Michele De Lucchi) dal Castello Sforzesco, dove è in parte smantellato l'allestimento dei BBPR

MILANO. Qualche riflessione a margine dell’incontro del 5 maggio che ha aperto il programma «Milano capitale del moderno», rassegna del Padiglione Architettura Expo 2015 presso il grattacielo Pirelli a cura di Lorenzo Degli Esposti nell’ambito di «Expo 2015 belle arti», curata da Vittorio Sgarbi per conto di Regione Lombardia in collaborazione con la Triennale di Milano che si snoderà per tutta la durata della manifestazione (www.padiglionearchitettura.it).
Dopo la padiglionite architettonica che ha colpito Milano, espressa in un’esplosione di dehors e bistrot che hanno invaso piazze e portici ingrassando i plateatici comunali, il panorama dei musei milanesi si è arricchito di una nuova tipologia di contenitore per arginare l’orgia di spazi post funzionalisti, archeologie industriali, loft e hangar: il museum minimum. Ecco la risposta pubblica alle fondazioni private: ricordiamola come il frutto della più avanzata sperimentazione dell’ufficio marketing territoriale, in collaborazione dell’Assessorato alla cultura trasformato per l’occasione in quello alla propaganda grandi eventi mediatici, ai tempi guidato dal telegenico Stefano Boeri. Questi aveva lanciato l’idea stravagante di trasferire temporaneamente la Pietà Rondanini nel carcere di San Vittore, naturalmente a spese dei BBPR e del loro progetto. Il tutto per fare a gara con altre operazioni spericolate di marketing virale estremo, come l’ortobotanica genetica della “Vigna di Leonardo” di Coldiretti, che inseguendo Jurassik Park ha invaso la casa degli Atellani progettata da Piero Portaluppi con la clonazione della malvasia di Leonardo (!). Vivremo dunque con nostalgia e commozione il ricordo delle romantiche operazioni di un sobrio e raffinato pioniere come Marco Goldin, che ha come unica colpa di riempire le proprie tasche e le location via via scelte con gettonatissime mostre temporanee pop dai titoli a volte un po’ dissacranti come Tutankhamon Caravaggio Van Gogh, La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento. Nel plauso generale, sono invece passate quasi inosservate, se non per una estesa agguerrita truppa di specialisti trasversali e bipartisan ormai incattiviti (da Vittorio Sgarbi a Philippe Daverio, passando per Jacopo Gardella fino a Giancarlo Consonni l’elenco è lunghissimo) le prove, sempre meno temporanee, e ben più costose, degli allestimenti pasticcioni e futuristi dei musei pubblici milanesi: un esempio per tutti, la sistemazione in un apposito “acquario” del Quarto stato di Pellizza da Volpedo nel Museo del Novecento.
Infine, oggi, possiamo finalmente dirci orgogliosi dell’apertura, all’interno dell’Antico ospedale spagnolo, del nuovo “minimuseo”, dove la Pietà Rondanini è incollata con l’attak su un immondo cilindro metallico verniciato a scomparsa. Il cilindro, fatto in Giappone con la complicità delle ingegnerie politecniche, a monito delle un tempo gloriose industrie metalmeccaniche Ansaldo, Magneti Marelli e Alfa Romeo, dovrebbe proteggere la Pietà dalle vibrazioni e dai terremoti (?). Esso inaugura l’era del post-design milanese. Sale dalle viscere del pavimento e pare suggerire un movimento rotatorio (che non c’è, ma s’immagina): una soluzione che riesce a riabilitare perfino il trampolino disegnato da Carlo Aymonino per la statua equestre di Marco Aurelio ai Musei Capitolini. Come abbia fatto Michele De Lucchi, che tutti noi amiamo se non altro per la lampada Tolomeo, a fingere di non vedere questo obbrobrio resta un mistero inesplicabile. La Pietà, abbandonata crediamo malvolentieri l'ara funeraria romana di epoca traianea che fungeva da basamento nella Sala degli Scarlioni allo Sforzesco, nella sua nuova sede cerca, annaspando disperatamente, di spiccare il volo appoggiandosi nel vuoto, sostenuta solo dalle impassibili luci infernali che tolgono ombra e profondità al modellato e trasformano la cruda superficie dirozzata, che ancora chiama la mano di Michelangelo, in una calda nube di pixel evanescenti: gli stessi principi espositivi con cui si presenterebbe la nuova vasca da bagno in Corian di Karim Rashid al Salone del mobile. Non per niente, per fare breccia nel pubblico colto, si è deciso di puntare sugli slogan e sulle grandi opere, a dispetto dei sistemi, dei musei e delle raccolte, per fare cassa e grandi numeri, in ossequio al paternalismo iconostatico che vuole l’associazione tra il capolavoro e il successo: Leonardo e Michelangelo come Zanetti e Costacurta. Una tecnica già sfruttata da banche e fondazioni in una purissima disinvolta strategia di product placement e di brand management ben poco consona al patrimonio culturale civico inteso come bene comune. Sarà forse che i grandi allestimenti pubblici non ce li possiamo più permettere e l’unico progetto organico museale allestito all’italiana come volevano i grandi maestri dello stile è quello dell’Opera del Duomo di Guido Canali, costato ben 12 milioni di euro e 8 anni di lavori?
Come mastro Geppetto, il fabbrile e onnipresente De Lucchi è diventato un Figaro che, giunto all’acme della carpenteria, viene chiamato ormai per fare la messa in piega a tutto: dal Brand Milano, all’Expo, alla Triennale. Come finisce ormai lo sappiamo: palcoscenico in doghe di legno a correre (a Venezia ne hanno già subito le conseguenze Palladio e Veronese alla Fondazione Cini come a Milano il Castello Sforzesco e Michelangelo); una soluzione riproposta per palazzo Citterio, la Villa reale di Monza, l’Unicredit Pavillion, il Padiglione Zero dell’Expo; insomma dappertutto; una cifra stilistica che rasenta il tic o l’esclusiva per Federlegno? Complici le quote del pavimento, la soluzione qui nell’Ospedale spagnolo risulta più posticcia che altrove, caricandosi di sinistri dejà vu di sgraziate parrocchiali poi ammodernate alla brianzola con le lacune degli affreschi rifinite, mentre l’innesto del “museo” nell’ex nosocomio risente il rigetto della troppo funzionale e scontata distribuzione dei flussi attraverso dei veri e propri corpi estranei (il ricevimento e la bussola di uscita). Alla fine rimane la fastidiosa sensazione che Paganini si ripeta fino alla noia con soluzioni formali e di arredo già viste altrove (Villa Reale di Monza, Gallerie d’Italia, ecc.), così come di un lavoro fatto con la mano sinistra. Gli ambienti non si fondono ma confondono; più che di un dialogo aperto occorre parlare di monologo consolatorio del contemporaneo in ossequio al fatal ciabattare turistico al posto della dell’ammirabile e sofferto dialogo polifonico (forse fin troppo elitario per i gusti di oggi…) del moderno con l’antico dimostrata dai BBPR con l’allestimento delle sale del Castello Sforzesco nel 1954-56.
Già, confrontarsi con i maestri del recente passato… Un problema in meno se andiamo avanti così: allo Sforzesco si è anche smantellata la Sala delle Asse, che ripensava il modello della boiserie ottocentesca, vivificato attraverso i mobili e le librerie di Franco Albini. Ora un televisore curvo da 40 pollici occupa lo spazio che fu della Pietà Rondanini nella delicata abside in pietra serena, concludendo la sinfonia milanese orchestrata da Banfi Peressutti Belgiojoso e Rogers con una sonora pernacchia. Così muore, perso per sempre il racconto laico del museo civico dei BBPR tanto faticosamente raccolto intorno al dialogo antico e nuovo impastato con la memoria civile e i dolorosi ricordi della guerra che finiva nella raccolta abside da meditazione come epilogo di un esaltante percorso di invenzioni progettuali, troppe volte compromesso dalle soluzioni temporanee e dalla scarsità di manutenzione e attenzione. Gli allestimenti storici, specie quelli moderni, presentano senz’altro un interesse pari e spesso a volte maggiore, in quanto rarità, delicatezza e sensibilità, delle stesse architetture.
L’importanza indiscutibile dell’interesse storico e culturale dell’allestimento BBPR, come esempio di grande museo pubblico italiano del dopoguerra, anche in rapporto con altre esperienze italiane coeve - pensiamo ad Albini e Scarpa - o internazionali come i grandi musei americani, è stato ampiamente  rinnegato dall’attuale processo di rinnovamento museale del Castello Sforzesco. Come lo showroom Olivetti a New York irrimediabilmente perduto, ora tale eredità è stata sfregiata: in base a quali principi e obiettivi e nell’ambito di quali strategie e politiche di tutela e valorizzazione il Ministero legittima queste operazioni? Per un progetto museografico di questa rilevanza non sarebbe d’obbligo la scelta di considerarlo non modificabile (e meritevole di una tutela integrale), di risolvere le nuove acquisizioni e comunque i cambiamenti di ordinamento con altri spazi che non lo modifichino, ma con esso siano organicamente collegati, nonchè di destinare nuove risorse a un progetto di tutela e valorizzazione che abbia come prescrizione e principale obiettivo la sua conservazione e conoscenza integrale e riservare al progetto contemporaneo il compito, umile e difficile, di aggiornarne la fruibilità e i contenuti nella prospettiva della conservazione critica, elaborando tutte le nuove soluzioni originali e funzionali in linea con le “preesistenze ambientali”, come avrebbe voluto Ernesto Nathan Rogers? Alla luce di quello che è successo, come possiamo considerare efficace la prescrizione di “vincolare” l’allestimento museale della Sala degli Scarlioni, in relazione ai famigerati “70 anni” attualmente previsti dal Codice dei Beni culturali? La procedura utilizzata in questo caso dalla Soprintendenza di Milano e dal Comune è da considerarsi un modello ortodosso ed esemplare per una modifica così sostanziale? Può una così importante decisione passare attraverso un iter di procedure “semplificate” e pretesti occasionali di promozioni ed eventi (come l’idea del prestito temporaneo), attraverso espedienti, escamotage, contorcimenti e deroghe al Codice? Se la suddetta procedura è stata quella per l’autorizzazione ai “prestiti” e non quella per uno spostamento definitivo con la modifica di un’opera architettonica, che forza potrebbe avere ora una prescrizione che imponga il ripristino dello stato pregresso della scultura nella Sala degli Scarlioni, e che cosa ne sarà di tutto il resto, ora che Sagunto è stata espugnata?

Indietro tutta
Ritornando all’incontro del 5 maggio al Pirellone, dopo un preliminare intervento telefonico di Francesco Scoppola, hanno preso la parola Alberico Barbiano di Belgioioso, Silvano Tintori, Emilio Battisti, Amedeo Bellini, Maria Teresa Fiorio, Vittorio Sgarbi, Philippe Daverio, Augusto Rossari e Carlo Bertelli. Un imbarazzato Rossari, tra i primi a denunciare lo sconcio proposito di vincolare l’allestimento della Sala degli Scarlioni, si è aggrappato disperatamente alla pilatesca prescrizione allegata al parere positivo del soprintendente Artioli di “conservazione della quinta”(?) in pietra serena, per chiedere di rimetterci almeno la copia in marmo fatta per le prove, consapevole dell’incombere del progetto di Vittorio Gregotti, a cui è stato già affidato l’incarico diretto per una revisione completa della Sala, nella quale dovrebbero essere riallestiti i bassorilievi del Bambaia con la complicità di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. Si avvia così un’ultima fase, quella definitiva e terminale, di dismissione dell’allestimento del Castello per come l’avevamo ereditato, operazione che renderà impossibile recuperarne la fisionomia e l’identità della sua fase moderna nella chiave di una lettura della continuità delle ricerche. Come è possibile che una tale irresponsabile scelta passi attraverso una pletora d’iniziative smozzicate, disorganiche e disgiunte: restauro del rivellino a cura di David Chipperfield e De Lucchi, Sala degli Scarlioni a Gregotti, a chi toccherà allora la Sala delle Asse? Un processo che pare privilegiare i lavori al progettista e, buon ultimo, al progetto. Possibile che nessuno tra direttori di museo, assessori e soprintendenti ritenga possibile differire una questione culturale così rilevante, e che il Museo abbia preso la strada non di potenziare e rivedere, come più volte sottolineato anche da Daverio, le collezioni e il layout delle sale che reclamano da sempre una revisione e valorizzazione museografica piuttosto che incanaglirsi per colpire al cuore il progetto che rappresenta per Milano capitale del moderno quello che Castelvecchio e Scarpa rappresentano per Verona? Sgarbi ha avuto gioco facile a stilare una vera e propria dichiarazione di guerra rendendo esplicito quanto molti avevano da più parti e in varie sedi dichiarato o pensato: come è stato possibile trattare questo caso alla stregua di un qualsiasi evento di ordinaria amministrazione? Ed è ancora possibile, almeno, negare l’approvazione a quel progetto per la cui attuazione non si è pensato neanche di avere un parere obbligatorio vincolante del Consiglio superiore dei Beni culturali che ora, sul fuoco delle polemiche incandescenti, ci arriva indirettamente dalle pagine dei giornali attraverso gli articoli a difesa di Luca Molinari e di Tomaso Montanari? Un’eventuale approvazione per la sua definitiva destinazione c’è già stata o ci deve ancora essere? Il parere non dovrebbe essere legato a un progetto definitivo e complessivo che sia in grado di dimostrare l’organicità e sistematicità delle relazioni delle parti con il tutto, attraverso procedure condivise, pubbliche e trasparenti anche nella scelta del progettista e del progetto. Considerando quanto sopra, è possibile esprimere un giudizio, perlomeno di censura (indipendentemente dalla qualità dell’eventuale progetto, come quello, poi accantonato, di Alvaro Siza, ricordato da Battisti), nei confronti di tutti gli interventi di questo tipo? Procedure che per giunta possono essere estese ad altre parti o ad altre occasioni, tanto più una volta che si sia creato un precedente che le legittimi come pratica corrente? E questo non è tanto più necessario in contesti culturalmente difficili e delicati come quelli del progetto moderno, che iniziamo solo adesso a storicizzare al di fuori della categoria del contemporaneo. Non siamo ancora troppo legati alla concezione del capolavoro unico rispetto alla sua relazione con il contesto, con la tradizione e con la sua storia della conservazione? E pensiamo indispensabile non appiattirsi alla rincorsa di un ruolo che già fondazioni e musei privati stanno interpretando egregiamente: quello di inseguire la moda e il pubblico (Hangar Bicocca, Fondazione Prada, Fondazione Trussardi), piuttosto che quello di fissare nuovi standard di comfort e di dotazioni (Gallerie d’Italia), di fornire una visione alternativa e identitaria rispetto a quella viziata e sbilanciata da pratiche di marketing e di fruizione di massa, dettate più da considerazioni meramente economico-commerciali piuttosto che legittimate da nuove opportunità storico-critiche o da progetti organici. Progetti troppo spesso visti solo come occasioni per la proliferazione ingiustificata di nuove occasioni di spesa che trovano la loro consacrazione esclusivamente in quanto legate alla fama del “capolavoro”.  Si è parlato, nel caso di un ripristino, della possibilità di utilizzare la copia della statua esistente della Pietà, o per collocarla nell’Ospedale spagnolo riportando al suo posto l’originale, o anche, come pietoso ripiego, per collocarla nella Sala degli Scarlioni, al posto dell’originale, perlomeno per testimoniare una soluzione progettuale storica e “gloriosa”; l’utilizzazione di copie in allestimenti museali è già stata applicata con successo (vedi Londra Victoria & Albert Museum o la copia delle nozze di Cana del Veronese per la Fondazione Cini), ed è sempre stata la base di un preciso progetto di valorizzazione e fruizione contestuale.
In questo caso, ancora una volta è in gioco l’identità del progetto moderno, che a Milano tutti dicono di amare e apprezzare, salvo poi registrarne il sacrificio indispensabile in nome delle ragioni progressive e delle economie di scala. Il Pirelli ha rischiato, la torre Galfa è tuttora in pericolo, l’istituto Marchiondi Spagliardi attende invano, per parlare solo delle celebrities: stilare un elenco sarebbe lunghissimo, ma occorre uscire dalla logica del vincolo come obbligo e come laccio da cui divincolarsi, per approdare a una visione in linea con la difesa dei diritti delle minoranze. Il progetto moderno, una volta tramontato il sogno dell’egemonia razionalista, attende forse ora per la sua sopravvivenza una nuova Carta dei diritti del Moderno, associata a un disciplinare di Progetto a denominazione di origine controllata e protetta che faccia conoscere e amare questa esperienza cruciale per capire il Novecento della città europea nel suo rapporto con la storia: così si potrà rafforzare l’identità di Milano capitale del moderno come meta obbligata del turismo colto. Una strada su cui incamminarsi, che pensiamo più solida rispetto alle prove, fin qui abbastanza deludenti, di gran parte delle abborracciate esperienze, sia pubbliche che private, volte a ricostruire una nuova identità contemporanea partendo da fumosi propositi o proposte speculative travestite da progetti urbanistici. Forse, questa volta, la storia potrebbe veramente farci da guida.

BBPR addio?
Trasferito lo storico studio che dal 1939 era in un’ala dei Chiostri di San Simpliciano da loro restaurati, nonostante i due convegni, libri e vari contributi e ricerche recenti, il rapporto di Milano con i BBPR è per lo meno contraddittorio se non schizofrenico: primo studio italiano che prende la via dell’internazionalizzazione e della multidisciplinarità cercando di confrontarsi sempre con le proprie radici e identità culturali senza perdere la dimensione tipica del progetto come invenzione originale, mentre il loro progetto simbolo, la Torre Velasca, è attualmente interessato da un difficile e ambizioso progetto di conservazione e rifunzionalizzazione, riceve con la vicenda della Pietà Rondanini e con lo smontaggio della Sala delle Asse al Castello Sforzesco un altro schiaffo alla tradizione di identità civile e morale che ha sempre cercato di incarnare. Gianluigi Banfi è morto ad Auschwitz, Lodovico Belgiojoso è stato un superstite e testimone, Ernesto Rogers una mitica figura di primo piano del milieu intellettuale europeo, Enrico Peressutti, amico di Le Corbusier, docente al Politecnico... Lo studio milanese è stato l’incubatore di almeno due generazioni di architetti e cultura architettonica, a partire dal figlio Alberico, anche lui professore al Politecnico, che ne cura oggi la complessa eredità nel solco della tradizione e ne prosegue l’attività. La loro sigla ha formato personalità come Vittorio Gregotti, Roberto Masiero, Aldo Rossi. Direttamente o indirettamente nessuno può dirsi estraneo alla cultura forgiata all’ombra della Torre Velasca e alla cifra di un moderno che ha sempre creduto di trovare all’interno di una ragione cosmopolita e socialdemocratica le basi per un’identità condivisa del progetto come progresso sociale e civile. Ma questo non ha impedito, dopo la perdita dello straordinario showroom Olivetti sulla 5° strada a New York (1959), opera che meriterebbe una replica fedele in qualche sala di museo del design), la distruzione del padiglione “Il labirinto dei ragazzi” alla X Triennale di Milano (1954), la distruzione del restauro e arredamento della palazzina Mayer con i graffiti di Albe Steiner in via Bigli a Milano (1960); mentre il Memoriale italiano nel campo di concentramento di Auschwitz (1979), dopo essere stato chiuso 3 anni fa è minacciato di distruzione dalla direzione del campo se non viene riportato in Italia. A tutto questo si aggiunge la recente completa modifica del piano terra dell’edificio tra corso Vittorio Emanuele e via Pasquirolo a Milano (1970).

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