domenica 31 maggio 2015

Consiglio caldamente la lettura di questa lucida analisi, critica (finalmente!), sul nuovo allestimento della Pietà Rondanini e il suo "museo". In "Il Giornale dell'Architettura.com"
http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2015/5/124318.html


Gran Caffè Rondanini: uno schiaffo all'eredità del progetto moderno milanese 

 

Riflessioni (poco rassicuranti) in seguito alla spostamento della Pietà nell'Antico ospedale spagnolo (allestimento di Michele De Lucchi) dal Castello Sforzesco, dove è in parte smantellato l'allestimento dei BBPR

MILANO. Qualche riflessione a margine dell’incontro del 5 maggio che ha aperto il programma «Milano capitale del moderno», rassegna del Padiglione Architettura Expo 2015 presso il grattacielo Pirelli a cura di Lorenzo Degli Esposti nell’ambito di «Expo 2015 belle arti», curata da Vittorio Sgarbi per conto di Regione Lombardia in collaborazione con la Triennale di Milano che si snoderà per tutta la durata della manifestazione (www.padiglionearchitettura.it).
Dopo la padiglionite architettonica che ha colpito Milano, espressa in un’esplosione di dehors e bistrot che hanno invaso piazze e portici ingrassando i plateatici comunali, il panorama dei musei milanesi si è arricchito di una nuova tipologia di contenitore per arginare l’orgia di spazi post funzionalisti, archeologie industriali, loft e hangar: il museum minimum. Ecco la risposta pubblica alle fondazioni private: ricordiamola come il frutto della più avanzata sperimentazione dell’ufficio marketing territoriale, in collaborazione dell’Assessorato alla cultura trasformato per l’occasione in quello alla propaganda grandi eventi mediatici, ai tempi guidato dal telegenico Stefano Boeri. Questi aveva lanciato l’idea stravagante di trasferire temporaneamente la Pietà Rondanini nel carcere di San Vittore, naturalmente a spese dei BBPR e del loro progetto. Il tutto per fare a gara con altre operazioni spericolate di marketing virale estremo, come l’ortobotanica genetica della “Vigna di Leonardo” di Coldiretti, che inseguendo Jurassik Park ha invaso la casa degli Atellani progettata da Piero Portaluppi con la clonazione della malvasia di Leonardo (!). Vivremo dunque con nostalgia e commozione il ricordo delle romantiche operazioni di un sobrio e raffinato pioniere come Marco Goldin, che ha come unica colpa di riempire le proprie tasche e le location via via scelte con gettonatissime mostre temporanee pop dai titoli a volte un po’ dissacranti come Tutankhamon Caravaggio Van Gogh, La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento. Nel plauso generale, sono invece passate quasi inosservate, se non per una estesa agguerrita truppa di specialisti trasversali e bipartisan ormai incattiviti (da Vittorio Sgarbi a Philippe Daverio, passando per Jacopo Gardella fino a Giancarlo Consonni l’elenco è lunghissimo) le prove, sempre meno temporanee, e ben più costose, degli allestimenti pasticcioni e futuristi dei musei pubblici milanesi: un esempio per tutti, la sistemazione in un apposito “acquario” del Quarto stato di Pellizza da Volpedo nel Museo del Novecento.
Infine, oggi, possiamo finalmente dirci orgogliosi dell’apertura, all’interno dell’Antico ospedale spagnolo, del nuovo “minimuseo”, dove la Pietà Rondanini è incollata con l’attak su un immondo cilindro metallico verniciato a scomparsa. Il cilindro, fatto in Giappone con la complicità delle ingegnerie politecniche, a monito delle un tempo gloriose industrie metalmeccaniche Ansaldo, Magneti Marelli e Alfa Romeo, dovrebbe proteggere la Pietà dalle vibrazioni e dai terremoti (?). Esso inaugura l’era del post-design milanese. Sale dalle viscere del pavimento e pare suggerire un movimento rotatorio (che non c’è, ma s’immagina): una soluzione che riesce a riabilitare perfino il trampolino disegnato da Carlo Aymonino per la statua equestre di Marco Aurelio ai Musei Capitolini. Come abbia fatto Michele De Lucchi, che tutti noi amiamo se non altro per la lampada Tolomeo, a fingere di non vedere questo obbrobrio resta un mistero inesplicabile. La Pietà, abbandonata crediamo malvolentieri l'ara funeraria romana di epoca traianea che fungeva da basamento nella Sala degli Scarlioni allo Sforzesco, nella sua nuova sede cerca, annaspando disperatamente, di spiccare il volo appoggiandosi nel vuoto, sostenuta solo dalle impassibili luci infernali che tolgono ombra e profondità al modellato e trasformano la cruda superficie dirozzata, che ancora chiama la mano di Michelangelo, in una calda nube di pixel evanescenti: gli stessi principi espositivi con cui si presenterebbe la nuova vasca da bagno in Corian di Karim Rashid al Salone del mobile. Non per niente, per fare breccia nel pubblico colto, si è deciso di puntare sugli slogan e sulle grandi opere, a dispetto dei sistemi, dei musei e delle raccolte, per fare cassa e grandi numeri, in ossequio al paternalismo iconostatico che vuole l’associazione tra il capolavoro e il successo: Leonardo e Michelangelo come Zanetti e Costacurta. Una tecnica già sfruttata da banche e fondazioni in una purissima disinvolta strategia di product placement e di brand management ben poco consona al patrimonio culturale civico inteso come bene comune. Sarà forse che i grandi allestimenti pubblici non ce li possiamo più permettere e l’unico progetto organico museale allestito all’italiana come volevano i grandi maestri dello stile è quello dell’Opera del Duomo di Guido Canali, costato ben 12 milioni di euro e 8 anni di lavori?
Come mastro Geppetto, il fabbrile e onnipresente De Lucchi è diventato un Figaro che, giunto all’acme della carpenteria, viene chiamato ormai per fare la messa in piega a tutto: dal Brand Milano, all’Expo, alla Triennale. Come finisce ormai lo sappiamo: palcoscenico in doghe di legno a correre (a Venezia ne hanno già subito le conseguenze Palladio e Veronese alla Fondazione Cini come a Milano il Castello Sforzesco e Michelangelo); una soluzione riproposta per palazzo Citterio, la Villa reale di Monza, l’Unicredit Pavillion, il Padiglione Zero dell’Expo; insomma dappertutto; una cifra stilistica che rasenta il tic o l’esclusiva per Federlegno? Complici le quote del pavimento, la soluzione qui nell’Ospedale spagnolo risulta più posticcia che altrove, caricandosi di sinistri dejà vu di sgraziate parrocchiali poi ammodernate alla brianzola con le lacune degli affreschi rifinite, mentre l’innesto del “museo” nell’ex nosocomio risente il rigetto della troppo funzionale e scontata distribuzione dei flussi attraverso dei veri e propri corpi estranei (il ricevimento e la bussola di uscita). Alla fine rimane la fastidiosa sensazione che Paganini si ripeta fino alla noia con soluzioni formali e di arredo già viste altrove (Villa Reale di Monza, Gallerie d’Italia, ecc.), così come di un lavoro fatto con la mano sinistra. Gli ambienti non si fondono ma confondono; più che di un dialogo aperto occorre parlare di monologo consolatorio del contemporaneo in ossequio al fatal ciabattare turistico al posto della dell’ammirabile e sofferto dialogo polifonico (forse fin troppo elitario per i gusti di oggi…) del moderno con l’antico dimostrata dai BBPR con l’allestimento delle sale del Castello Sforzesco nel 1954-56.
Già, confrontarsi con i maestri del recente passato… Un problema in meno se andiamo avanti così: allo Sforzesco si è anche smantellata la Sala delle Asse, che ripensava il modello della boiserie ottocentesca, vivificato attraverso i mobili e le librerie di Franco Albini. Ora un televisore curvo da 40 pollici occupa lo spazio che fu della Pietà Rondanini nella delicata abside in pietra serena, concludendo la sinfonia milanese orchestrata da Banfi Peressutti Belgiojoso e Rogers con una sonora pernacchia. Così muore, perso per sempre il racconto laico del museo civico dei BBPR tanto faticosamente raccolto intorno al dialogo antico e nuovo impastato con la memoria civile e i dolorosi ricordi della guerra che finiva nella raccolta abside da meditazione come epilogo di un esaltante percorso di invenzioni progettuali, troppe volte compromesso dalle soluzioni temporanee e dalla scarsità di manutenzione e attenzione. Gli allestimenti storici, specie quelli moderni, presentano senz’altro un interesse pari e spesso a volte maggiore, in quanto rarità, delicatezza e sensibilità, delle stesse architetture.
L’importanza indiscutibile dell’interesse storico e culturale dell’allestimento BBPR, come esempio di grande museo pubblico italiano del dopoguerra, anche in rapporto con altre esperienze italiane coeve - pensiamo ad Albini e Scarpa - o internazionali come i grandi musei americani, è stato ampiamente  rinnegato dall’attuale processo di rinnovamento museale del Castello Sforzesco. Come lo showroom Olivetti a New York irrimediabilmente perduto, ora tale eredità è stata sfregiata: in base a quali principi e obiettivi e nell’ambito di quali strategie e politiche di tutela e valorizzazione il Ministero legittima queste operazioni? Per un progetto museografico di questa rilevanza non sarebbe d’obbligo la scelta di considerarlo non modificabile (e meritevole di una tutela integrale), di risolvere le nuove acquisizioni e comunque i cambiamenti di ordinamento con altri spazi che non lo modifichino, ma con esso siano organicamente collegati, nonchè di destinare nuove risorse a un progetto di tutela e valorizzazione che abbia come prescrizione e principale obiettivo la sua conservazione e conoscenza integrale e riservare al progetto contemporaneo il compito, umile e difficile, di aggiornarne la fruibilità e i contenuti nella prospettiva della conservazione critica, elaborando tutte le nuove soluzioni originali e funzionali in linea con le “preesistenze ambientali”, come avrebbe voluto Ernesto Nathan Rogers? Alla luce di quello che è successo, come possiamo considerare efficace la prescrizione di “vincolare” l’allestimento museale della Sala degli Scarlioni, in relazione ai famigerati “70 anni” attualmente previsti dal Codice dei Beni culturali? La procedura utilizzata in questo caso dalla Soprintendenza di Milano e dal Comune è da considerarsi un modello ortodosso ed esemplare per una modifica così sostanziale? Può una così importante decisione passare attraverso un iter di procedure “semplificate” e pretesti occasionali di promozioni ed eventi (come l’idea del prestito temporaneo), attraverso espedienti, escamotage, contorcimenti e deroghe al Codice? Se la suddetta procedura è stata quella per l’autorizzazione ai “prestiti” e non quella per uno spostamento definitivo con la modifica di un’opera architettonica, che forza potrebbe avere ora una prescrizione che imponga il ripristino dello stato pregresso della scultura nella Sala degli Scarlioni, e che cosa ne sarà di tutto il resto, ora che Sagunto è stata espugnata?

Indietro tutta
Ritornando all’incontro del 5 maggio al Pirellone, dopo un preliminare intervento telefonico di Francesco Scoppola, hanno preso la parola Alberico Barbiano di Belgioioso, Silvano Tintori, Emilio Battisti, Amedeo Bellini, Maria Teresa Fiorio, Vittorio Sgarbi, Philippe Daverio, Augusto Rossari e Carlo Bertelli. Un imbarazzato Rossari, tra i primi a denunciare lo sconcio proposito di vincolare l’allestimento della Sala degli Scarlioni, si è aggrappato disperatamente alla pilatesca prescrizione allegata al parere positivo del soprintendente Artioli di “conservazione della quinta”(?) in pietra serena, per chiedere di rimetterci almeno la copia in marmo fatta per le prove, consapevole dell’incombere del progetto di Vittorio Gregotti, a cui è stato già affidato l’incarico diretto per una revisione completa della Sala, nella quale dovrebbero essere riallestiti i bassorilievi del Bambaia con la complicità di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. Si avvia così un’ultima fase, quella definitiva e terminale, di dismissione dell’allestimento del Castello per come l’avevamo ereditato, operazione che renderà impossibile recuperarne la fisionomia e l’identità della sua fase moderna nella chiave di una lettura della continuità delle ricerche. Come è possibile che una tale irresponsabile scelta passi attraverso una pletora d’iniziative smozzicate, disorganiche e disgiunte: restauro del rivellino a cura di David Chipperfield e De Lucchi, Sala degli Scarlioni a Gregotti, a chi toccherà allora la Sala delle Asse? Un processo che pare privilegiare i lavori al progettista e, buon ultimo, al progetto. Possibile che nessuno tra direttori di museo, assessori e soprintendenti ritenga possibile differire una questione culturale così rilevante, e che il Museo abbia preso la strada non di potenziare e rivedere, come più volte sottolineato anche da Daverio, le collezioni e il layout delle sale che reclamano da sempre una revisione e valorizzazione museografica piuttosto che incanaglirsi per colpire al cuore il progetto che rappresenta per Milano capitale del moderno quello che Castelvecchio e Scarpa rappresentano per Verona? Sgarbi ha avuto gioco facile a stilare una vera e propria dichiarazione di guerra rendendo esplicito quanto molti avevano da più parti e in varie sedi dichiarato o pensato: come è stato possibile trattare questo caso alla stregua di un qualsiasi evento di ordinaria amministrazione? Ed è ancora possibile, almeno, negare l’approvazione a quel progetto per la cui attuazione non si è pensato neanche di avere un parere obbligatorio vincolante del Consiglio superiore dei Beni culturali che ora, sul fuoco delle polemiche incandescenti, ci arriva indirettamente dalle pagine dei giornali attraverso gli articoli a difesa di Luca Molinari e di Tomaso Montanari? Un’eventuale approvazione per la sua definitiva destinazione c’è già stata o ci deve ancora essere? Il parere non dovrebbe essere legato a un progetto definitivo e complessivo che sia in grado di dimostrare l’organicità e sistematicità delle relazioni delle parti con il tutto, attraverso procedure condivise, pubbliche e trasparenti anche nella scelta del progettista e del progetto. Considerando quanto sopra, è possibile esprimere un giudizio, perlomeno di censura (indipendentemente dalla qualità dell’eventuale progetto, come quello, poi accantonato, di Alvaro Siza, ricordato da Battisti), nei confronti di tutti gli interventi di questo tipo? Procedure che per giunta possono essere estese ad altre parti o ad altre occasioni, tanto più una volta che si sia creato un precedente che le legittimi come pratica corrente? E questo non è tanto più necessario in contesti culturalmente difficili e delicati come quelli del progetto moderno, che iniziamo solo adesso a storicizzare al di fuori della categoria del contemporaneo. Non siamo ancora troppo legati alla concezione del capolavoro unico rispetto alla sua relazione con il contesto, con la tradizione e con la sua storia della conservazione? E pensiamo indispensabile non appiattirsi alla rincorsa di un ruolo che già fondazioni e musei privati stanno interpretando egregiamente: quello di inseguire la moda e il pubblico (Hangar Bicocca, Fondazione Prada, Fondazione Trussardi), piuttosto che quello di fissare nuovi standard di comfort e di dotazioni (Gallerie d’Italia), di fornire una visione alternativa e identitaria rispetto a quella viziata e sbilanciata da pratiche di marketing e di fruizione di massa, dettate più da considerazioni meramente economico-commerciali piuttosto che legittimate da nuove opportunità storico-critiche o da progetti organici. Progetti troppo spesso visti solo come occasioni per la proliferazione ingiustificata di nuove occasioni di spesa che trovano la loro consacrazione esclusivamente in quanto legate alla fama del “capolavoro”.  Si è parlato, nel caso di un ripristino, della possibilità di utilizzare la copia della statua esistente della Pietà, o per collocarla nell’Ospedale spagnolo riportando al suo posto l’originale, o anche, come pietoso ripiego, per collocarla nella Sala degli Scarlioni, al posto dell’originale, perlomeno per testimoniare una soluzione progettuale storica e “gloriosa”; l’utilizzazione di copie in allestimenti museali è già stata applicata con successo (vedi Londra Victoria & Albert Museum o la copia delle nozze di Cana del Veronese per la Fondazione Cini), ed è sempre stata la base di un preciso progetto di valorizzazione e fruizione contestuale.
In questo caso, ancora una volta è in gioco l’identità del progetto moderno, che a Milano tutti dicono di amare e apprezzare, salvo poi registrarne il sacrificio indispensabile in nome delle ragioni progressive e delle economie di scala. Il Pirelli ha rischiato, la torre Galfa è tuttora in pericolo, l’istituto Marchiondi Spagliardi attende invano, per parlare solo delle celebrities: stilare un elenco sarebbe lunghissimo, ma occorre uscire dalla logica del vincolo come obbligo e come laccio da cui divincolarsi, per approdare a una visione in linea con la difesa dei diritti delle minoranze. Il progetto moderno, una volta tramontato il sogno dell’egemonia razionalista, attende forse ora per la sua sopravvivenza una nuova Carta dei diritti del Moderno, associata a un disciplinare di Progetto a denominazione di origine controllata e protetta che faccia conoscere e amare questa esperienza cruciale per capire il Novecento della città europea nel suo rapporto con la storia: così si potrà rafforzare l’identità di Milano capitale del moderno come meta obbligata del turismo colto. Una strada su cui incamminarsi, che pensiamo più solida rispetto alle prove, fin qui abbastanza deludenti, di gran parte delle abborracciate esperienze, sia pubbliche che private, volte a ricostruire una nuova identità contemporanea partendo da fumosi propositi o proposte speculative travestite da progetti urbanistici. Forse, questa volta, la storia potrebbe veramente farci da guida.

BBPR addio?
Trasferito lo storico studio che dal 1939 era in un’ala dei Chiostri di San Simpliciano da loro restaurati, nonostante i due convegni, libri e vari contributi e ricerche recenti, il rapporto di Milano con i BBPR è per lo meno contraddittorio se non schizofrenico: primo studio italiano che prende la via dell’internazionalizzazione e della multidisciplinarità cercando di confrontarsi sempre con le proprie radici e identità culturali senza perdere la dimensione tipica del progetto come invenzione originale, mentre il loro progetto simbolo, la Torre Velasca, è attualmente interessato da un difficile e ambizioso progetto di conservazione e rifunzionalizzazione, riceve con la vicenda della Pietà Rondanini e con lo smontaggio della Sala delle Asse al Castello Sforzesco un altro schiaffo alla tradizione di identità civile e morale che ha sempre cercato di incarnare. Gianluigi Banfi è morto ad Auschwitz, Lodovico Belgiojoso è stato un superstite e testimone, Ernesto Rogers una mitica figura di primo piano del milieu intellettuale europeo, Enrico Peressutti, amico di Le Corbusier, docente al Politecnico... Lo studio milanese è stato l’incubatore di almeno due generazioni di architetti e cultura architettonica, a partire dal figlio Alberico, anche lui professore al Politecnico, che ne cura oggi la complessa eredità nel solco della tradizione e ne prosegue l’attività. La loro sigla ha formato personalità come Vittorio Gregotti, Roberto Masiero, Aldo Rossi. Direttamente o indirettamente nessuno può dirsi estraneo alla cultura forgiata all’ombra della Torre Velasca e alla cifra di un moderno che ha sempre creduto di trovare all’interno di una ragione cosmopolita e socialdemocratica le basi per un’identità condivisa del progetto come progresso sociale e civile. Ma questo non ha impedito, dopo la perdita dello straordinario showroom Olivetti sulla 5° strada a New York (1959), opera che meriterebbe una replica fedele in qualche sala di museo del design), la distruzione del padiglione “Il labirinto dei ragazzi” alla X Triennale di Milano (1954), la distruzione del restauro e arredamento della palazzina Mayer con i graffiti di Albe Steiner in via Bigli a Milano (1960); mentre il Memoriale italiano nel campo di concentramento di Auschwitz (1979), dopo essere stato chiuso 3 anni fa è minacciato di distruzione dalla direzione del campo se non viene riportato in Italia. A tutto questo si aggiunge la recente completa modifica del piano terra dell’edificio tra corso Vittorio Emanuele e via Pasquirolo a Milano (1970).

Una magistrale rassegna di Raffaele Salinari sul significato del berretto frigio: dalla totalità dell'anima dei culti misterici agli schiavi liberati, fino a simbolo rivoluzionario ne "la libertà guida il popolo sulle barricate" di Delacroix. In "Alias" de "il Manifesto" del 30/05/15
http://ilmanifesto.info/copriti-con-questo-berretto/#


Cosa uni­sce Sal­va­dor Dalí ai Puffi? E ancora, il pit­tore cata­lano ed i pic­coli esseri azzurri all’alchimista di Notre Dame ed alla Rivo­lu­zione fran­cese? Un copri­capo che sus­sume in una sola forma molti aspetti della stessa sostanza: il ber­retto fri­gio.
Il cap­pello dei rivo­lu­zio­nari gia­co­bini ha ori­gini che ne spie­gano ampia­mente la capa­cità di espri­mere la mede­sima essenza sim­bo­lica sep­pur in con­te­sti appa­ren­te­mente diversi. Se lo tro­viamo, infatti, posato sul capo di Marianna, l’effige fem­mi­nile rap­pre­sen­tante la Repub­blica fran­cese nel cele­bre qua­dro La Libertà che guida il popolo di Eugène Dela­croix, le sue ascen­denze riman­dano a quelle di anti­chis­sime divi­nità ira­ni­che, arri­vate in Occi­dente sotto varie forme, inclusi i Re Magi come li tro­viamo effi­giati in alcune raf­fi­gu­ra­zioni pro­to­cri­stiane. E dun­que, da dove viene que­sto copri­capo, e per­ché la sua valenza sim­bo­lica lo ha reso così espres­sivo? Per capirne la genesi dob­biamo risa­lire le tappe sto­ri­che che lo hanno visto pro­ta­go­ni­sta. In pri­mis biso­gna con­si­de­rare la sua forma pecu­liare, che nasce da quella della pelle di un capretto aperta. Ini­zial­mente, infatti, il copri­capo era otte­nuto da una pelle intera: le zampe poste­riori erano legate al mento men­tre quelle ante­riori for­ma­vano la sua carat­te­ri­stica pro­tu­be­ranza ante­riore, che poteva pen­dere sul davanti o sul die­tro o rima­nere in posi­zione ver­ti­cale. Col tempo non è stato più otte­nuto in que­sto modo, ma ha man­te­nuto la carat­te­ri­stica forma che ancora allude all’originaria preparazione.
I MISTERI ELEUSINI
I primi testi che ci par­lano del ber­retto fri­gio — detto così per­ché, come vedremo, diviene famoso come copri­capo degli anti­chi per­siani che ave­vano nel VI secolo a C. con­qui­stato la Fri­gia, l’attuale Ana­to­lia turca — sono quelli ine­renti ai Misteri eleu­sini, riti reli­giosi miste­rici che si cele­bra­vano ogni anno nel san­tua­rio di Deme­tra nell’antica città greca di Eleusi. Al cul­mine del rito, dice Ermia Ales­san­drino, nell’epopteia, la visione: «L’anima recu­pera la tota­lità della sua essenza dalla fram­men­ta­rietà e dalla mol­te­pli­cità del sen­si­bile». Epop­teúo è il verbo che indica, con­tem­po­ra­nea­mente, la con­tem­pla­zione sovra-razionale, il suo momento, e la cer­tezza di que­sta cono­scenza: una visione cai­ro­lo­gica, nella quale si supera il fram­men­ta­rio ed il com­plesso per cogliere ciò che uni­sce e ci uni­sce a tutte le cose. Pierre Dujols nel suo Histo­rie des Jaco­bins depuis 1789 jusqu’à ce jour (Parigi 1820), in cui trac­cia la sto­ria rivo­lu­zio­na­ria del cap­pello, scrive che, giunti al grado di Epopte nei Misteri di Eleusi, si chie­deva all’iniziato se si sen­tiva la forza, la volontà e la dedi­zione per dedi­carsi alla Grande Opera. Allora gli si posava sopra il capo un ber­retto fri­gio di colore rosso, pro­nun­ciando que­ste parole: «Copriti con que­sto ber­retto, vale più della corona di un re». Il ber­retto repub­bli­cano, che «vale più della corona di un re», nasce allora come copri­capo legato ai culti eso­te­rici di Deme­tra e Per­se­fone, dove le due divi­nità rap­pre­sen­tano il ciclo eterno della Natura Natu­rans in rela­zione alle sue crea­ture, quelle della Natura Natu­rata, nelle quali il prin­ci­pio vitale, l’archetipo delle vita indi­strut­ti­bile, come dice Keré­nyi di Dio­niso, si esprime. E dun­que qui vediamo già una prima deter­mi­nante sim­bo­lica del rosso copri­capo: esso rap­pre­senta un prin­ci­pio di libe­ra­zione che viene dalla retta visione, quella sulla «trama nasco­sta» come dice Era­clito, che è «più forte di quella mani­fe­sta». L’epopteia nella quale l’anima recu­pera la tota­lità della sua essenza altro non è, allora, che la visione essen­ziale della libertà: quel tro­vare il nostro posto nel mondo affin­ché, al con­tempo, il mondo trovi posto in noi.
MITRA
Ma, prima delle divi­nità gre­che, che d’altra parte vei­co­la­vano il mede­simo signi­fi­cato sim­bo­lico, il ber­retto fu uti­liz­zato dai sacer­doti del Sole, nella regione della Fri­gia, per i riti dedi­cati al dio Mitra. La figura di Mitra com­pare pri­ma­ria­mente nei Veda, gli anti­chi testi indiani risa­lenti al XX secolo a C., come uno degli Adi­tya, un gruppo di divi­nità solari dell’induismo discen­denti da Aditi e Kashyapa. Aditi è una Dea Madre, una delle innu­me­re­voli ipo­stasi della Grande Dea nei secoli, nel Ṛgveda, (I, 89,10), il testo più antico, si dice: «Aditi è il fir­ma­mento, Aditi è l’atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cin­que razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere». Kasyapa è invece una figura paterna, un dio-Padre che, all’epoca della reli­gio­sità pre-vedica, era un dio pri­mor­diale dive­nuto poi, in epoca vedica, lo sposo di Aditi. Joseph Cam­p­bell nel suo Le maschere di dio, sag­gio sulla mito­lo­gia orien­tale, ci ricorda come fosse ori­gi­na­ria­mente raf­fi­gu­rata come una mucca. Da qui una prima rela­zione col toro mitraico che tro­ve­remo in tutte le raf­fi­gu­ra­zioni poste­riori. Mitra, divi­nità dun­que di ori­gine indo ira­nica, pri­ma­ria­mente parte di una tri­nità for­mata da madre, padre e figlio, sus­sunse poi col tempo le altre due assu­mendo una sem­pre mag­giore impor­tanza nella civiltà per­siana fino a iden­ti­fi­carsi, nella con­ce­zione rigi­da­mente mono­tei­sta dello Zoroa­stri­smo, o Maz­dei­smo appunto, con Ahura Mazda l’unico Dio, crea­tore del mondo sen­si­bile e di quello sovra­sen­si­bile. Que­sto nome in ave­stico signi­fica «spi­rito che crea con il pen­siero» da: Ahura deri­vato dall’antico ave­stico anshu nel signi­fi­cato di «respiro vitale», col­le­gato ad ansu (spi­rito), e Mazdā deri­vato dalla radice indoeu­ro­pea mendh che indica l’«apprendere»; quindi nel signi­fi­cato di «memo­ria» e «pen­siero». Qui si mostra una seconda deter­mi­nante sim­bo­lica legata al ber­retto fri­gio: il «retto pen­siero» che, con la retta visione epop­teica si pone come ulte­riore ele­mento della triade sim­bo­lica che verrà poi com­ple­tata dall’agire liber­ta­rio. Il culto di Mitra appare per la prima volta a Roma all’epoca di Nerone, che si fece ini­ziare ai suoi misteri; nel tempo, soste­nuto dai legio­nari romani che lo ave­vano impor­tato dall’Oriente per­ché vede­vano in lui un dio guer­riero per via della sua lotta con­tro il Toro — al tempo stesso sim­bolo astro­lo­gico delle rina­scente pri­ma­vera e emblema della forza crea­trice — si dif­fuse a tal punto che con­venne agli impe­ra­tori, capi supremi dell’esercito, dive­nire miste, cioè ini­ziati e gran sacer­doti del dio. Con Aure­liano, nel 279 d.C., il culto fu poi fatto coin­ci­dere con quello del dio Sole, il Sol Invic­tus e, da quel momento, la fede in Mitra e la sua ado­ra­zione diven­nero un dovere che l’imperatore esi­geva in modo da legit­ti­mare il suo potere teo­cra­tico. La reli­gio­sità mitraica, miste­rica ed eso­te­rica, com­pren­deva sette gradi: corvo, ninfo, miles, leone, per­siano, helio­dro­mos e Pater, che ripro­po­ne­vano sim­bo­li­ca­mente il viag­gio dell’anima a ritroso, cioè nella sua risa­lita attra­verso le varie sfere, sino ad oltre­pas­sare quella dell’Aquila, ver­tice del mondo delle Potenze, e rag­giun­gere così il Prin­ci­pio, il Mondo dell’Origine, l’iperuranio pla­to­nico in cui vivono le Idee.
Nel mitreo di Santa Pri­sca in Roma, uno dei meglio con­ser­vati della città, vediamo come le pareti late­rali fos­sero rico­perte di pit­ture, oggi visi­bili e leg­gi­bili solo in parte, rea­liz­zate cer­ta­mente prima del 200 d.C.. Già que­sta data, in piena fio­ri­tura cri­stiana, ci dice quanto il culto di Mitra fosse pene­trato pro­fon­da­mente all’interno della cul­tura romana ed anzi, come esso sia stato l’ultimo culto pagano a scom­pa­rire con l’affermarsi del cri­stia­ne­simo. Si dice che anche Costan­tino, nono­stante il suo famoso editto, fosse un adepto del dio. Sulla parete di destra sono raf­fi­gu­rati i sette gradi di ini­zia­zione del culto, ad ognuno dei quali è abbi­nato un per­so­nag­gio ed una frase che ini­zia con la parola per­siana Nama, «onore», quindi il grado di ini­zia­zione seguito dalla for­mula «sotto la pro­te­zione», abbre­viata in vari modi, spesso sin­te­tiz­zata dalla sola parola «tutela», per chiu­dere con il rispet­tivo pia­neta che lo pro­teg­geva. Ma ciò che mag­gior­mente ci inte­ressa si trova in dire­zione dell’altare, dove sono raf­fi­gu­rati dei per­so­naggi pro­ba­bil­mente real­mente esi­stiti, dato che di ognuno è ripor­tato il nome; essi si diri­gono verso una figura seduta, iden­ti­fi­ca­bile con il Pater, vale a dire il grado più alto rag­giun­gi­bile, al quale por­tano degli oggetti, forse delle offerte: un toro, un gallo, un cra­tere, un mon­tone ed un maiale. L’uomo seduto indossa il ber­retto fri­gio, è vestito di rosso, ed a sini­stra della figura si legge l’iscrizione Nama (Patribus)/ ab oriente / ad occi­dente (m)/ tutela Saturni. Dun­que la figura che poi, nella reli­gio­sità cri­stiana, assu­merà il ruolo di Papa, ed indos­serà anche la carat­te­ri­stica Mitra, evo­lu­zione del ber­retto fri­gio, deriva da que­sto culto.
I RE MAGI
Il ber­retto fri­gio è anche un indu­mento fon­da­men­tale nell’abito tra­di­zio­nale del regno per­siano dal VI secolo a.C. al II secolo a.C. È per que­sta sua pro­gres­siva dif­fu­sione in ambito pro­fano che, nell’arte greca del periodo elle­ni­stico, appare come indu­mento tipico degli orien­tali. E chi più orien­tale dei Magi, cioè maghi, grandi sapienti che, seguendo la stella cometa, arri­vano a Betlemme in occa­sione della nascita del Sal­va­tore?
Le cono­scenze astro­man­ti­che dei Cal­dei, cioè dei Babi­lo­nesi, erano ben note nell’antichità paleo­cri­stiana. Già Dio­doro Siculo, nella sua Biblio­theca Histo­rica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testi­mo­nianza: «I Cal­dei, che tra i Babi­lo­nesi sono i più anti­chi… si appli­cano per tutta la vita agli studi filo­so­fici e trag­gono prin­ci­pal­mente assai glo­ria dall’astrologia. E come molto si occu­pano dell’arte divi­na­to­ria, pre­di­cono le cose future, e cer­cano, o con le espia­zioni, o con i sacri­fici, o con certi incan­te­simi, di allon­ta­nare le cat­tive vicende o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed inter­pre­tano i sogni ed i pro­digi, e cer­ta­mente ven­gono repu­tati pro­feti esatti». Ludolfo di Sas­so­nia (m. 1378), nella sua Vita Chri­sti, sostiene che: «I tre re pagani ven­nero chia­mati Magi non per­ché fos­sero ver­sati nelle arti magi­che, ma per la loro grande com­pe­tenza nella disci­plina dell’astrologia. Erano detti magi dai Per­siani coloro che gli Ebrei chia­ma­vano scribi, i Greci filo­sofi e i latini savi».
Una tra le più anti­che raf­fi­gu­ra­zione dei Magi, a nostra cono­scenza, si trova nella cosid­detta cap­pella Greca della cata­comba di Pri­scilla a Roma. La scena è sem­pli­cis­sima: i tre Magi, distinti nei colori dei loro vestiti, si avvi­ci­nano da sini­stra a destra ad uno scranno dove si trova seduta la Madre con il Bam­bino. I tre por­tano doni non distin­gui­bili. Die­tro la sedia si scorge un resi­duo di colore che può essere forse inter­pre­tato come ciò che è rima­sto della Stella. I tre Magi indos­sano un corto chi­tone con pan­ta­loni e por­tano il copri­capo fri­gio, cosi da essere carat­te­riz­zati come per­so­naggi orien­tali. Stessa raf­fi­gu­ra­zione tro­viamo sia su una lapide di pie­tra oggi custo­dita a Ravenna, presso il Museo Arci­ve­sco­vile pro­ve­niente dalla Cap­pella dei SS. Qui­rino e Giu­litta (V sec.), sia sulla Coper­tura dell’Evangelario custo­dita nel Museo del Duomo di Milano. Le raf­fi­gu­ra­zioni tro­vano riscon­tro nel testo del van­gelo di Mat­teo: «Alcuni Magi giun­sero da oriente (…); la stella… li pre­ce­deva, fin­ché giunse e si fermò sopra il luogo dove si tro­vava il bam­bino (…); videro il bam­bino con Maria sua madre (…); e gli offri­rono in dono oro, incenso e mirra». Sul coper­chio di un sar­co­fago delle Grotte Vati­cane, rin­ve­nuto sotto la Basi­lica di S. Pie­tro, sono raf­fi­gu­rati i tre Magi, alle cui spalle s’intravedono tre dro­me­dari. Il sar­co­fago è del 345 circa. E di dro­me­dari parla un passo di Isaia (60,6) nell’Antico Testa­mento, inter­pre­tato dun­que come pro­fe­zia dell’adorazione dei Magi: «Ver­ranno a te i beni dei popoli. Uno stuolo di cam­melli ti inva­derà, dro­me­dari di Madian e di Efa, tutti ver­ranno da Saba, por­tando oro e incenso e pro­cla­mando le glo­rie del Signore». Un altro testo, tratto dal libro dei Salmi, dice: «I re di Tar­sis e delle isole por­te­ranno offerte, i re degli Arabi e di Saba offri­ranno tri­buti» (71,10). A motivo di quest’ultimo ver­setto, a par­tire dall’arte medie­vale, si comin­cia a par­lare dei Magi come di re, e così ven­gono rap­pre­sen­tati con i sim­boli este­riori della loro rega­lità: non il ber­retto fri­gio ma la corona.
Il rilievo sulla porta lignea di S. Sabina, a Roma, ese­guito intorno al 431, mostra ancora Maria e il Bam­bino su di un trono col­lo­cato alla som­mità di sei sca­lini, cioè i sei gradi più uno che por­tano al com­pi­mento dell’iniziazione mitraica. I tre Magi indos­sano i noti vestiti orien­tali, com­preso il ber­retto fri­gio. Tutta la rap­pre­sen­ta­zione della scena allude chia­ra­mente a mes­sag­geri «Parti», cioè Per­siani che por­tano i loro doni.
IL BERRETTO DELL’ADEPTO
«Se, spinti dalla curio­sità, o per dare uno scopo pia­ce­vole alla pas­seg­giata senza meta d’un giorno d’estate, salite la scala a chioc­ciola che porta alle parti alte dell’edificio, per­cor­rete len­ta­mente il pas­sag­gio, sca­vato come un canale per lo smal­ti­mento delle acque, sulla som­mità della seconda gal­le­ria. Giunti vicino all’asse mediano del grande edi­fi­cio, all’altezza dell’angolo rien­trante della torre set­ten­trio­nale, note­rete, in mezzo ad un cor­teo di chi­mere, il sor­pren­dente rilievo d’un grande vec­chio di pie­tra. È lui, è l’Alchimista di Notre Dame. Con il capo coperto dal cap­pello fri­gio, attri­buto dell’Adepto, posato negli­gen­te­mente sulla lunga capi­glia­tura dai grandi ric­cioli, il sag­gio, avvolto nel leg­gero camice di labo­ra­to­rio, s’appoggia con una mano alla balau­stra, men­tre con l’altra acca­rezza la pro­pria barba abbon­dante e serica. Egli non medita, osserva. L’occhio è fisso; lo sguardo pos­siede una straor­di­na­ria acu­tezza. Tutto, nell’atteggiamento del Filo­sofo, rivela una estrema emo­zione… Che splen­dida figura que­sta del vec­chio mae­stro che scruta, inter­roga, curioso ed attento, l’evoluzione della vita mine­rale e poi, infine, abba­gliato, con­tem­pla il pro­di­gio che solo la pro­pria fede gli faceva intra­ve­dere». Con que­ste parole Ful­ca­nelli, l’enigmatico autore de Il Mistero delle Cat­te­drali, intro­duce la figura dell’Alchimista sulla torre set­ten­trio­nale della grande cat­te­drale gotica, la cui figura è rico­no­sci­bile appunto dal cap­pello fri­gio «attri­buto dell’Adepto».
Anche in un mosaico bizan­tino della basi­lica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Re Magi ado­rano Gesù cal­zati dei loro cap­pelli frigi. Inte­res­sante notare che essi rivol­gono sì lo sguardo al Sal­va­tore, ma sopra di loro brilla una stella d’oro, chiaro rife­ri­mento sia alla stella cometa che li indusse a met­tersi in cam­mino, sia alla stella del Compost-stella, cioè alla Stella di San Gia­como di Com­po­stela che com­pare, insieme alla con­chi­glia, in innu­me­re­voli fac­ciate di chiese, palazzi, monu­menti, sparsi per tutta l’Europa, e che indi­ca­vano al tempo stesso sia un rifu­gio per i pel­le­grini sulla via del cele­bre San­tua­rio sia le fasi della Grande Opera, come chia­ra­mente leg­gi­bile sulle for­melle scol­pite ai lati dell’ingresso prin­ci­pale di Notre Dame, sotto il Por­tale del Giu­di­zio Uni­ver­sale e così ben descritti da Ful­ca­nelli. Qui, sia a destra che a sini­stra del pila­stro cen­trale, sul quale è effi­giata la Filo­so­fia con in mano un libro chiuso ed un libro aperto, segno delle due cono­scenze eso­te­rica ed esso­te­rica, si svol­gono dei bas­so­ri­lievi che illu­strano sia le fasi dell’Opera sia le virtù morali che l’adepto deve svi­lup­pare per poter ope­rare la mate­ria tra­sfor­mando al con­tempo se stesso. Se osser­viamo bene que­sti bas­so­ri­lievi tro­ve­remo, ad un certo punto, la figura dell’alchimista che difende l’Atanor, la for­nace alche­mica, e che indossa il ber­retto fri­gio, lo stesso che abbiamo visto sul capo della scul­tura sul tor­rione set­ten­trio­nale.
D’altra parte la sovrap­po­si­zione tra il Cri­sto ed il Lapis, cioè la Pie­tra Filo­so­fale, è totale nell’alchimia medioe­vale, sia per evi­tare le ire dell’Inquisizione, sia come lin­guag­gio ini­zia­tico alle ope­ra­zioni di tra­smu­ta­zione della mate­ria. Nel famoso romanzo Notre Dame di Parigi di Vic­tor Hugo, uno dei pro­ta­go­ni­sti, il deli­rante arci­dia­cono della cat­te­drale Mon­si­gnor Claude Frollo, è un alchi­mi­sta che però, acce­cato dal suo amore car­nale per la bella Esme­ralda, ma non certo ricam­biato da lei, non è in grado per que­sto di leg­gere com­piu­ta­mente le for­mule della Grande Opera. Esme­ralda, infatti, rap­pre­senta la Prima Mate­ria, ed è inna­mo­rata di Febo, cioè del Sole, e non del torvo arci­dia­cono che pub­bli­ca­mente la con­danna e pri­va­ta­mente la brama.
Dice Eugène Can­se­liet nella sua pre­fa­zione al Mistero delle cat­te­drali (Medi­ter­ra­nee 1988) che Fila­tete nel suo libro Entrée ouverte au Palais fermé du Roi, si sof­ferma più di altri sulla pra­tica dell’Opera facendo cenno alla stella cometa come ana­lo­gon di quella erme­tica, con que­ste parole: «È il mira­colo del mondo, l’unione delle virtù supe­riori con quelle infe­riori; per que­sta ragione l’Onnipotente l’ha indi­cata come segno straor­di­na­rio. I saggi l’hanno visto in Oriente, ne sono rima­sti sba­lor­diti e subito dopo hanno saputo che un Re puris­simo era venuto al mondo»; infine Fila­tete così con­clude: «E l’Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest’Opera e, così facendo, l’adorna in modo del tutto par­ti­co­lare». Qui, dun­que, ancora una volta la sovrap­po­si­zione tra imma­gini della sacra­lità cri­stiana e fasi dell’Opera è un mezzo per velare ed al con­tempo comu­ni­care all’adepto i segreti della pra­tica. Can­se­liet ci ricorda, infine, che la stella non è un segno esclu­sivo del tra­va­glio della Grande Opera ma che la si può incon­trare anche in nume­rosi altri com­po­sti chimici.
IL PILEUS ROMANO
Que­ste ana­lo­gie tra sacro e pro­fano, tra eso­te­rico ed esso­te­rico, tra libe­ra­zione della mente e libe­ra­zione del corpo, rap­pre­sen­tano la vera forza evo­ca­tiva del ber­retto fri­gio che si porrà defi­ni­ti­va­mente, col suo uso nell’antica Roma repub­bli­cana, come una com­po­nente essen­ziale di ogni abito che voglia mostrare que­sti due aspetti. Qui, infatti, divenne sia il copri­capo che veniva donato dal padrone agli schiavi libe­rati, i liberti, sia come sim­bolo della Repub­blica. Fu quindi in que­sta epoca che il ber­retto fri­gio (chia­mato pileus in latino) assunse il suo valore sim­bo­lico di libertà. In par­ti­co­lare que­sto signi­fi­cato viene san­cito dalle monete bat­tute dai cesa­ri­cidi all’indomani dell’uccisione di Giu­lio Cesare, che reca­vano su una delle facce un pileus, con­si­de­rato dun­que sim­bolo della libertà repub­bli­cana, inse­rito tra due pugnali, come quelli usati per il regi​ci​dio​.Il sole, al cui culto ori­gi­na­ria­mente vedico si col­le­gava l’utilizzo del cap­pello e quindi il suo signi­fi­cato, sim­bo­leg­gia dun­que già in epoca romana l’avvenire e il pro­gresso nella libertà e quindi la pro­spe­rità data dalla rina­scita deri­vante dal fuoco, ele­mento puri­fi­ca­tore e rin­no­va­tore. Que­sti signi­fi­cati di rin­no­va­mento e di libertà si adat­ta­vano per­fet­ta­mente agli ideali ed allo spi­rito della rivo­lu­zione fran­cese, per la quale il cap­pello fri­gio divenne così natu­ral­mente uno dei sim­boli della rivo­lu­zione stessa, spesso issato come com­pen­dio dei tre valori di Libertà, Fra­ter­nità ed Egua­glianza sopra l’albero della libertà.
Un ber­retto simile, infatti, era già indos­sato dai galeotti di Mar­si­glia libe­rati nel 1792 nel corso della rivo­lu­zione. Gra­zie a que­sto fatto il sim­bolo venne immor­ta­lato nella figura della Marianne, emblema stesso della Fran­cia gia­co­bina, nel cele­bre qua­dro La Libertà che guida il popolo di Eugène Dela­croix. La sim­bo­lo­gia della donna con il ber­retto fri­gio fu poi uti­liz­zata dal movi­mento socia­li­sta come sim­bolo di rin­no­va­mento, pro­gresso e libe­ra­zione dell’umanità. E poi­ché molte delle rivo­lu­zioni anti-coloniali del Nord e Sud Ame­rica sono state ispi­rate dalla rivo­lu­zione fran­cese, esso com­pare come sim­bolo di libertà nelle ban­diere dello Stato della West Vir­gi­nia e New Jer­sey, e come sigillo uffi­ciale dell’United Sta­tes Army (sic!) e del Senato degli Stati Uniti. In Ame­rica Latina è rap­pre­sen­tato negli stemmi di Argen­tina, Boli­via, Colom­bia, Cuba, El Sal­va­dor, Nica­ra­gua e Para­guay. Il cap­pello fri­gio è anche nello stemma dei Tie­polo, antica fami­glia vene­ziana che diede alla città impor­tanti dogi. Anche il Corno ducale, ovvero il copri­capo distin­tivo del Doge della Sere­nis­sima Repub­blica di Vene­zia, si ispi­re­rebbe al ber­retto fri­gio già indos­sato dai sol­dati bizantini.
SALVADOR DALÍ E I PUFFI
Il ber­retto fri­gio uni­sce anche arti­sti ed espres­sioni arti­sti­che in appa­renza lon­ta­nis­sime tra loro come Sal­va­dor Dalí ed i Puffi. Per quello che con­cerne il pit­tore cata­lano, ispi­rato dalla sua stessa poe­tica paranoico-critica e dalle mille pro­vo­ca­zioni che creava, il cap­pello è un sim­bolo forte di appar­te­nenza, tanto da ricom­pa­rire tra­sfi­gu­rato nei suoi qua­dri degli anni ’30 e ’40 pro­prio all’interno del metodo paranoico-critico. Que­sta è la defi­ni­zione che lo stesso Dalí for­ni­sce del suo metodo: «Tutti, soprat­tutto in Ame­rica, vogliono sapere il metodo segreto del mio suc­cesso. Que­sto metodo esi­ste. Si chiama il metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inven­tato e lo applico con suc­cesso, ben­ché non sap­pia ancora in cosa con­si­sta. Grosso modo, si trat­te­rebbe della siste­ma­zione più rigo­rosa dei feno­meni e dei mate­riali più deli­ranti, con l’intenzione di ren­dere tan­gi­bil­mente crea­tive le mie idee più osses­si­va­mente peri­co­lose. Que­sto metodo fun­ziona sol­tanto alla con­di­zione di pos­se­dere un dolce motore d’origine divina, un nucleo vivo, una Gala. E ce n’è sol­tanto una». Il bino­mio Gala — la com­pa­gna di tutta la vita, la donna che lo prese e mai lo lasciò andare — ed il cap­pello fri­gio, lo vediamo in alcune foto che ritrag­gono la cop­pia sul mare di Cada­qués, il mare nativo di Dalí, nei pressi del quale poi costruirà la casa museo nella quale è con­ser­vato imbal­sa­mato. E allora un arti­sta come Dalí, così visce­ral­mente attac­cato alla sua terra tanto da farne la sca­tu­ri­gine dei suoi qua­dri, non poteva certo tra­la­sciare che il metodo paranoico-critico svi­lup­passe l’idea del cap­pello fri­gio sino a tra­sfor­marlo, con quelle meta­mor­fosi così con­na­tu­rare alla sua opera pit­to­rica, in una sorta di pro­lun­ga­mento cra­nico, come fosse ora­mai fuso con la testa che lo indossa.
Una prima idea di que­sta tra­smu­ta­zione ana­to­mica com­pare in alcuni suoi per­so­naggi come il Guglielmo Tell nella cele­bre tela, L’enigma di Guglielmo Tell del 1933. Il qua­dro, che deter­minò la rot­tura con i Sur­rea­li­sti di Bre­ton a cagione del viso del pro­ta­go­ni­sta, quello di Lenin, è in realtà un segno di rivolta con­tro l’autorità in gene­rale, e verso quella paterna in par­ti­co­lare. Il padre di Dalí rifiu­tava, infatti, la sua rela­zione con Gala, donna divor­ziata, e dun­que la scelta di Sal­va­dor fu quella di «ucci­dere il padre» sbef­feg­gian­dolo, con­ce­pendo que­sta scena alta­mente sim­bo­lica in cui l’eroe sviz­zero sta per schiac­ciare sotto il piede una pic­cola figu­rina che sim­bo­leg­gia appunto Gala. Nello stesso periodo, ma poste­riore di alcuni mesi al Guglielmo Tell, altri dipinti dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fici mostrano diret­ta­mente il lungo cra­nio come pro­lun­ga­mento del ber­retto fri­gio, in par­ti­co­lare Io a dieci anni, quando ero il bam­bino caval­letta, com­plesso di castra­zione, sem­pre del 1933, oppure in Arpa invi­si­bile del 1934. Nel bam­bino caval­letta la som­mità del ber­retto fri­gio diviene tutt’uno con la tesa del pic­colo Dalí vestito da mari­na­retto, come si usava nelle scuole ele­men­tari a quell’epoca, men­tre il tavolo si erge come un mem­bro intur­gi­dito che punta verso l’infinito. La fobia del pic­colo Sal­va­dor per le caval­lette era ben nota; di fronte a que­sti insetti poteva avere anche dei veri e pro­pri attac­chi iste­rici. Le caval­lette tor­nano pre­po­ten­te­mente in tutti i suoi qua­dri più dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fici, a par­tire dal Grande Mastur­ba­tore del 1929, in cui l’autore esprime tutto il disa­gio ses­suale dei primi incon­tri con Gala. Sarà l’apparizione del ber­retto fri­gio fuso col suo capo a for­mare quello della caval­letta che espri­merà per Dalí il supe­ra­mento del com­plesso di castra­zione paterno ed una sorta di ritro­vato equi­li­brio ses­suale con la com­pa­gna di tutta la vita. Il ber­retto fri­gio appare anche nelle forme che l’artista pro­pone per i copri­capi dise­gnati per la sti­li­sta Elsa Schiap­pa­relli sul finire degli anni ’30. Ma è nell’ultimo periodo della sua esi­stenza, dopo la morte di Gala, che Dalí torna ad indos­sare peren­ne­mente il copri­capo cata­lano. Nelle foto della vec­chiaia lo vediamo sem­pre cal­zato del suo ber­retto fri­gio bianco, come quello dei Puffi.
Anche i famosi per­so­naggi inven­tati da vignet­ti­sta belga Pierre Cul­li­ford detto Peyo in col­la­bo­ra­zione con Yvan Del­porte nel 1958 indos­sano il ber­retto fri­gio bianco, tranne il Grande Puffo, una sorta di Papa della popo­la­zione dei pic­coli esseri «alti tre mele», che lo porta rosso. Peren­ne­mente minac­ciati dall’infido Gar­ga­mella, e qui il cer­chio alche­mico si chiude, alla ricerca di sei Puffi che, bol­liti nel veleno di ser­pente, costi­tui­scono l’ingrediente fon­da­men­tale nella for­mula della pie­tra filo­so­fale. Non a caso Gar­ga­mella è il figlio dege­nere di una schiatta di maghi, il cui capo­sti­pite si chiama Bal­das­sarre, come uno dei Magi. Chissà cosa avrebbe pen­sato l’Alchimista di Notre Dame se fosse vis­suto ai nostri giorni, anzi, chissà cosa ne pensa osser­vando il mondo da sotto il suo fri­gio berretto.

venerdì 29 maggio 2015

Testo Michelangelo Simulazione Terza Prova II C Zucchi
Vi lascio queste pagine per maggior chiarezza riguardo ai vostri appunti. Sono importanti le pagine che avete trovato sul Registro elettronico di Classe e poi, se proprio insistete, vi consiglio di guardare le pp. su David e la parte sulla Sacrestia Nuova. Il Giudizio Universale è stato inserito perchè spiega in modo chiaro la crisi dei valori rinascimentali vissuta da Michelangelo

(Le pagine sono tratte da G. Dorfles, C. Dalla Costa, G. Pieranti, Arte 2. Dal Rinascimento all'Impressionismo, Atlas ediz.)

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