domenica 29 aprile 2012

Testo Prova Integrata "Monza Medievale"

- IL DUOMO DI MONZA

La basilica di San Giovanni Battista era una chiesa di Monza, fondata dai Longobardi alla fine del VI secolo. Di essa rimangono pochi resti archeologici e soprattutto la descrizione tramite alcune fonti scritte; al suo posto è stato in seguito eretto, tra il XIII ed il XIV secolo, l'attuale Duomo di Monza.
 
Storia
La chiesa fu fondata intorno al 595 dalla regina Teodolinda come cappella palatina del Palazzo Reale monzese, residenza estiva della corte longobarda. Secondo Paolo Diacono, la regina scelse Monza, già sede di un palazzo di Teodorico il Grande, perché attratta dal clima e dalla salubrità del borgo; vi consacrò quindi l'edificio, che dotò di «molti oggetti d'oro e d'argento» e «di terre». La basilica era certamente già consacrata nel 603, quando l'abate Secondo di Non vi celebrò il battesimo del figlio di Teodolinda e Agilulfo, Adaloaldo.

Nel 652 accolse le spoglie di re Rotari. La basilica rivestì anche un importante ruolo simbolico e sacro nell'immaginario longobardo, legata a diverse leggende. Paolo Diacono riferisce di una visione avuta dal figlio e successore di Rotari, Rodoaldo: a causa della sua empietà - aveva profanato la tomba del padre per invidia e per sottrarne i tesori - fu visitato in sogno da Giovanni Battista in persona, che gli interdì l'ingresso nella basilica. Da allora, ogni volta che Rodoaldo tentò di varcare la soglia della chiesa, una forza misteriosa lo colpì alla gola e lo rigettò indietro. La basilica venne anche ricordata nella profezia comunicata, ai tempi di Grimoaldo, da un eremita all'imperatore bizantino Costante II, che mirava alla riconquista dell'Italia: il monaco lo informò infatti che i Longobardi erano invincibili poiché protetti da san Giovanni, proprio grazie alla decisione di Teodolinda di costruire la basilica in suo onore.

La medesima profezia prediceva la rovina dei Longobardi, quando la devozione verso il santo e la sua basilica sarebbe venuta meno. E infatti Paolo Diacono, che compose la sua Historia Langobardorum dopo la caduta del Regno longobardo, constatò:

« E questo fatto noi l'abbiamo visto avverarsi, noi che, prima della rovina dei Longobardi, abbiamo veduto la chiesa del beato Giovanni, che è posta nella località di Monza, amministrata da persone vili, al punto che quel luogo venerabile era concesso a indegni e ad adulteri, non per i meriti di vita, ma per i donativi pagati »
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, V, 6
)

L'edificio è stato distrutto tra XIII e XIV secolo insieme all'attiguo Palazzo Reale, per far posto all'attuale Duomo di Monza.

Architettura


Della costruzione longobarda sono rimasti soltanto pochi materiali edilizi, tra i quali i resti della torre del VI secolo tra l'abside della Cappella di Teodolinda a sinistra e la sacrestia vecchia a destra; fonti scritte testimoniano che la basilica era a tre navate ed era preceduta da un atrio quadriportico.
Scavi archeologici sembrano confermare che l'antica basilica longobarda fosse nella metà orientale dell'attuale duomo, con probabile pianta triabsidata cruciforme.

Del periodo longobardo sono tuttora visibili due lastre marmoree scolpite a graffito incastrate nella facciata e una torre ad est della sacrestia, alta più di venti metri e che fu usata come campanile fino al 1606. Nel Museo del Duomo sono anche conservate tegole del tempio.





                                               Interno della Cattedrale di Monza

Descrizione e Analisi stilistica

Descrizione
Pianta basilicale a tre navate, con cappelle laterali, transetto e coro. Unica abside centrale. Sulla crociera d'incontro si imposta il tiburio.
Epoca di costruzione: 1300 - 1346

Analisi stilistica
La facciata, prospettante su piazza Duomo, è frutto dell'ampliamento diretto da Matteo da Campione nella seconda metà del Trecento. Essa appartiene alla cosiddetta tipologia "a vento", si presenta a salienti, scandita in cinque campi da forti lesene a sezione rettangolare, concluse da edicole contenenti statue di santi. Sono tutte frutto del restauro ottocentesco, ad eccezione della prima di sinistra. L'ampio rosone (restaurato) è inquadrato da una cornice a lacunari, il cui motivo è ossessivamente iterato nella zona superiore.
Il portale del campo centrale è preceduto da un protiro, a lungo creduto opera di Matteo da Campione. Si tratta invece di un manufatto della seconda metà del Cinquecento. La grammatica tardogotica e i gocciolatoi sono stati probabilmente esemplati sui modelli del duomo di Milano.
La lunetta insiste su una zoccolatura costituita da frammenti di sculture di età romana con scene di caccia (II-III sec. d.C.) ed è organizzata su due registri. Oltre al significato politico e religioso della figurazione è rilevante la sua valenza iconografica per la presenza, tra gli oggetti, della Chioccia con i pulcini e della Croce di Berengario, assai puntigliosamente descritti. La datazione va ragionevolmente collocata tra il 1320 ed il 1345, anno della restituzione del tesoro alla Chiesa monzese.
Proseguendo l'esame dell'esterno, si giunge al blocco absidale.Il profondo presbiterio è frutto della rielaborazione tardocinquecentesca promossa da Carlo Borromeo.
La percezione dell'interno è fortemente condizionata dalle campagne decorative che si succedettero dalla seconda metà del Cinquecento sino al Settecento, e che hanno trasformato la basilica in una fastosa antologia della pittura murale barocca.


Notizie storiche
Tra le grandi cattedrali medievali, il duomo di Monza costituisce un caso tra i più complessi e intriganti. Il duomo intreccia indissolubilmente la sua storia con quella della città di cui è cuore e simbolo.
La chiesa - dedicata a san Giovanni Battista - sorse quindi come cappella della vicina residenza regia (longobarda), a breve distanza dal corso del fiume Lambro, e risulta già officiata in occasione del battesimo di Adaloaldo - figlio di Agilulfo e Teodelinda - nel 603. Nulla resta dell'originario edificio, ad eccezione di pochi materiali e di alcuni elementi dell'arredo liturgico; molto poco si conosce anche della struttura, con tutta probabilità di impianto basilicale, a tre navate precedute da un atrio. La vera eccezionale testimonianza di questo momento germinativo è costituita infatti dal ricchissimo, sontuoso complesso di oggetti tuttora conservato nel Tesoro.

In seguito, nel corso del XIV secolo, il duomo assunse nella prima campagna di lavori, che durò sino alla consacrazione dell'altare maggiore (1346), forme semplici e austere come quelle dell'ordine francescano e agostiniano: prevalentemente in cotto, con il corpo longitudinale spartito da sobri pilastri, e copertura a capriate dell'invaso centrale, e blocco absidale compatto, con corto transetto voltato e absidi a terminazione piatta. La facciata sorse a tre campi, con paramento lapideo a bande bicrome bianco-nere (secondo la tradizione locale lombarda già romanica) e unico portale centrale sormontato da una lunetta istoriata recante una raffigurazione riassuntiva del legame, ancora saldissimo dopo tanti secoli: il dono da parte di Teodelinda del Tesoro a S. Giovanni.
Le esigenze della comunità e il ruolo crescente di rappresentatività promosso dai signori di Milano imposero presto l'avvio di una seconda campagna di lavori, che occupa la seconda metà del XIV secolo ed è caratterizzata dalla presenza di maestranze campionesi, e in particolare di una figura di grande rilievo come Matteo da Campione. Si pose mano innanzitutto all'ampliamento delle navate da tre a cinque; ciò impose anche l'allargamento della facciata per comprendere le testate dei corpi di fabbrica aggiunti, ed il suo adeguato proporzionamento in altezza, secondo modelli diffusi a Milano.
È infatti esplicita l'intenzione da parte dei Visconti di accreditare nella seconda metà del Trecento il duomo di Monza come sede per le incoronazioni imperiali, insieme ad Aquisgrana e Roma, e in stretta connessione con il S. Ambrogio di Milano, facendo leva sulla presenza nel Tesoro della "corona ferrea", ritenuta una reliquia del chiodo della crocefissione di Cristo.
Alla sobria unica cappella maggiore si affiancarono due cappelle gemelle, pure in cotto, a terminazione poligonale, destinate a ricevere una sontuosa decorazione pittorica: quella di destra è purtroppo perduta, quella di sinistra con le Storie di Teodelinda realizzate dagli Zavattari tra il 1444 e il 1445.
Il Seicento e il Settecento sono anche per la basilica di S. Giovanni Battista i secoli della grande decorazione barocca.
Di particolare incisività sono i restauri condotti sulla facciata tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento sotto la direzione di Gaetano Landriani e Luca Beltrami.


- LA CAPPELLA DI TEODOLINDA

Gli Zavattari sono una famiglia di pittori attivi in Lombardia nel XV secolo. Essi avevano una bottega a Milano, ma lavorarono anche nell'area circostante. La cappella di Teodolinda si trova nel Duomo di Monza, a sinistra dell'abside centrale. Vi si conserva, in un'apposita teca nell'altare, la corona ferrea, inoltre è decorata da un ciclo di affreschi degli Zavattari, famiglia di pittori con bottega a Milano, che è il maggior esempio di ciclo pittorico dell'epoca tardo gotica lombarda. La cappella venne eretta insieme alla fabbrica trecentesca del Duomo di Monza, nel corso del XIV secolo. Gli affreschi che la rivestono furono probabilmente commissionati da Filippo Maria Visconti. La decorazione venne condotta in due riprese, la prima tra il 1441 e il 1444 e la seconda tra il 1444 e il 1446, con l'opera attribuita a quattro diverse "mani".

L'ambiente, chiuso da una cancellata, è a volta poligonale gotica a costoloni. La rappresentazione è tratta da episodi tratti dalla Historia Langobardorum di Paolo Diacono e da una leggenda tardo medievale riportata dal cronista monzese Bonincontro Morigia (XIV secolo), che narra del sogno della regina Teodolinda per la fondazione del Duomo. Le scene degli affreschi sono 45, distribuite su cinque fasce sovrapposte per un totale di circa 500 m2. Probabilmente Franceschino, il padre, concepì l'intero ciclo che fu poi realizzato e concluso dai figli, Giovanni, Gregorio e Ambrogio.

La lettura delle scene inizia dall'alto a sinistra e descrivono i preliminari e le nozze tra Teodolinda e Autari, fino alla morte del re; sono poi raffigurati i preliminari e le nozze tra la regina e il secondo marito Agilulfo; quindi si narra la nascita e lo sviluppo del Duomo, la morte di Agilulfo e quella di Teodolinda; infine si narra dell'approdo sfortunato dell'imperatore Costante e del suo ritorno a Bisanzio. In particolare si contano ben 28 scene nuziali o di preparazione al matrimonio, che hanno fatto pensare a un collegamento con la vicenda di Bianca Maria Visconti e il passaggio di potere tra i Visconti e gli Sforza: l'analogia con la vicenda della regina longobarda, che scelse il nuovo re prendendolo come marito, legittimerebbe la presa di potere di Francesco Sforza per via matrimoniale nel 1441. Molti sono gli episodi di vita cortese, come i balli, i banchetti, le feste, le battute di caccia, con una preziosa descrizione di abiti, acconciature, armi ed armature, che forniscono uno straordinario spaccato della vita di corte a Milano nel XV secolo.
La tecnica pittorica è molto complessa e preziosa, con affresco, tempera a secco, decorazioni a rilievo, dorature in foglia e in pastiglia, come in una grande miniatura monumentale.

Anche se in parte rappresentano fatti storici, le scene affrescate esprimono un ambiente ideale, con personaggi nei costumi di epoca viscontea contro un cielo d'oro.
Lo stile di queste pitture mostra un'adesione tarda ai modi Michelino da Besozzo, con linee eleganti e colori tenui. Grande attenzione è posta ai dettagli, mentre le figure sembrano attonite e senza peso.
Al centro della cappella un altare custodisce lo scrigno della Corona Ferrea, il diadema con il quale furono incoronati re longobardi, re d'Italia ed imperatori del Sacro Romano Impero.
Dietro l'altare e contro la parete di fondo si trova il sarcofago nel quale, nel 1308, il corpo della regina Teodolinda fu traslato dalla prima sepoltura nella originaria Basilica longobarda.

Di queste storie di alto medioevo, gli Zavattari danno una rappresentazione che Renata Negri definisce benissimo: aprire la porta della cappella è come sollevare il coperchio di un cofanetto prezioso. L'oro è dovunque: nei cieli, nelle corone, nei gioielli, ma anche nei capelli, negli elmi, sulle vesti, negli strumenti musicali, sulle tavole imbandite, nella coppa che i reali fidanzati si scambiano, negli speroni, negli scettri sottili, che sembrano bastoncelli da passeggio, sui paramenti sacri, nelle croci astili, nei candelabri, perfino sulle candele, nelle bardature dei cavalli. Oro a rilievo sulle pastiglie di gesso predisposte, oppure punzonato sul fondo, come facevano per le carte da gioco, i Tarocchi Viscontei in cui gli Zavattari erano coinvolti con Bonifacio Bembo. Parte della decorazione a secco si è persa attraverso i secoli, anche a causa di vecchi restauri non appropriati, ma lo stato di conservazione è assai buono, se confrontato con quello di opere degli stessi tempi e dello stesso genere, che spesso sono completamente scomparse.
     


Sulla parete destra della cappella compare la data 1444. Il 1444 non è l'anno in cui tutti gli affreschi furono finiti, ma la fine di un primo ciclo e l'inizio del secondo, probabilmente per i riquadri dei due registri inferiori. Si ritiene quindi che l'esecuzione degli affreschi si sia svolta fra il 1440 ed il 1446.  L'impressione visiva è in gran parte profana: è la vita cortese all'inizio del Quattrocento, il tipico tema del gotico internazionale.
Nel 1441 aveva avuto luogo il matrimonio fra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, dopo un più che decennale fidanzamento tutto politico. Difatti Bianca Maria era figlia di Filippo Maria Visconti, Duca di Milano, e tramite questo matrimonio lo Sforza pensava di aprirsi la strada verso il potere, cosa che gli riuscì nel 1450, tre anni dopo la morte di Filippo Maria. Si è fatta quindi l'ipotesi assai intrigante che dietro la rappresentazione del matrimonio di Teodolinda con Agilulfo si adombrassero le nozze di Bianca Maria con Francesco, cosa non probabile perché Filippo Maria fino alla sua morte nel 1447 cercò sempre di tenere lo Sforza lontano dalla Lombardia. Ma nella cappella, ben 28 riquadri su 45 riguardano temi di carattere matrimoniale. Ci sono anche gli stemmi di Filippo Maria Visconti e di Francesco Sforza, quest'ultimo chiaramente apposto dopo la morte del Visconti. Sembra in definitiva molto probabile che la decorazione sia sorta per iniziativa dei canonici locali, sia pure con l'approvazione di Filippo Maria.

Negli affreschi hanno operato certamente più di due esecutori, anche se è chiaro che c'è una mente direttiva che organizza le rappresentazioni; non solo, negli affreschi eseguiti per ultimi è probabile che ci sia stato qualche intervento posteriore: maggiore attenzione alle fisionomie – veri e propri ritratti, specie se si tratta di ecclesiastici. Un tentativo di rappresentazione rinascimentale, ma l'ispirazione degli Zavattari è assai vicina a quella di Michelino da Besozzo, e prima ancora a Giovannino de' Grassi. Gli affreschi compiuti da Pisanello a Verona ed a Mantova attorno al 1435 erano certamente conosciuti, specie le scene del ciclo cavalleresco nel castello di Mantova. Michelino da Besozzo ed Antonio Pisanello erano assai noti agli Zavattari, ed in genere nell'Italia settentrionale. Per comprendere la situazione, è bene ricordare la frase di André Chastel: “La Lombardia, il paese tradizionale dei tagliatori di pietre e dei buoni decoratori, grazie alle cave delle Alpi, è una regione lenta; era giunta tardi al gotico, e giunse tardi al Rinascimento”.




 - IL TESORO DELLA CATTEDRALE

Introduzione. L'oreficeria barbarica.
L'oreficeria ha avuto grande importanza nell'ambito della cultura figurativa cristiana. Anche prima che si affermasse per merito degli abili artigiani barbarici, quest'arte si era avvalsa di tecniche di lavorazione antichissime, già note ai romani. La tecnica a cloisonné, per esempio, è un'eredità tardo antica, mentre le tecniche della laminatura, della granulazione, della trafilatura, e dello sbalzo erano note sia sia in Occidente, sia nel vicino oriente. L'oreficeria è quasi l'unica testimonianza dell'attività artistica dei popoli migrati a partire dal IV sec. d.C. verso il Mediterraneo. Non di rado questi erano accompagnati da artisti orafi orientali, che utilizzavano pietre e gioielli provenienti dalle conquiste dei nuovi territori. La varietà dei ritrovamenti suggerisce un quadro molto complesso che impedisce di individuare gli apporti specifici di ogni popolazione. Un elemento comune nell'area nordeuropea, giunto in Italia attraverso la mediazione celtica è l'ornamento zoomorfo. Il repertorio figurativo presenta, tuttavia, una grande varietà di motivi stilizzati e astratti, nei quali le pietre sono spesso valorizzate per il loro contrasto cromatico con il caldo colore dell'oro.
Particolare diffusione ebbe l'arte dell'oreficeria longobarda, anche per il suo ruolo di attestazione del rango sociale; nei monili, così come nei pregiati oggetti liturgici, la raffinata lavorazione dell'oro e dell'argento era arricchita dal vivace cromatismo delle pietre dura o in pasta vitrea. I Longobardi, infatti, eccelsero anche nell'intaglio dell'avorio. Esemplare della sintesi espressa dalle tradizioni bizantina e longobarda sono le opere conservate nel Tesoro del Duomo di Monza. Nell'Evangeliario di Teodolinda, per esempio, un rivestimento di evangeliario, riconosciamo il principio di di armonia compositiva di derivazione classica che è patrimonio dell'arte bizantina. Intorno alla croce gemmata lo spazio si divide in quattro parti, ognuna delle quali appare come campo multicolore, impreziosito da gemme e cammei.

Le principali tecniche di lavorazione orafa
Cloisonnè) Consiste nell'applicazione di pietre o smalti colorati entro spazi ben delimitati da contorni in metallo.
Granulazione) Antica tecnica orafa con la quale piccolissimi grani d'oro vengoo saldati tra loro e su lamine, evidenziando figurazioni.
Laminatura) Rivestimento con lamine generalmente in metalli preziosi, anche lavorati.
Sbalzo) Tecnica di lavorazione dei metalli che consiste nel fare risaltare le figure a rilievo su una faccia della lamina, incavando l'altra con appositi strumenti.
Filigrana) Si ottiene curvando o intrecciando sottili filamenti di metallo che vengono poi fissati nei punti di contatto.

Esempi di alcune opere del Tesoro della Cattedrale

1) Dittico di Stilicone
Il dittico di Stilicone è un dittico consolare del 400 d.C. circa, realizzato per Stilicone, magister militum (generale) dell'imperatore romano Onorio. Il dittico si trova nel Tesoro del Duomo di Monza, a cui fu donato dal re Berengario I intorno al 900.Si tratta di un tipico dittico consolare dell'età tardo-imperiale, che veniva offerto in dono ai consoli in occasione del loro insediamento. Consisteva in due tavolette unite da cerniera, l'interno delle quali, in legno, era rivestito di cera ed usato per la scrittura. All'esterno le tavolette sono rivestite in avorio, intagliato con la raffigurazione di Stilicone e di sua moglie Serena (nipote e figlia adottiva di Teodosio I) con il figlio Eucherio. L'opera fu prodotta, forse da artigiani milanesi, in occasione del primo consolato di Stilicone (400).

I due intagli in avorio raffigurano, con tecnica raffinata, tre membri della famiglia di Stilicone rappresentati in posa frontale, come è tipico dell'arte di questo periodo. Stilicone, è rappresentato armato di lancia e scudo, poggiato a terra; veste una tunica a maniche lunghe che arriva fino al ginocchio, ricoperta da mantello fissato con una fibula sulla spalla destra e cinge la spada. La moglie Serena presenta il tradizionale abito della matrona romana e la tipica acconciatura di quest'epoca, con orecchini e collana. Accanto compare il figlio Eucherio, in toga, che tiene in mano il dittico ricevuto per la nomina a notaio, avvenuta già nel 395.

Nell'opera traspare la volontà di sottolineare l’importanza del Console che desiderava apparire il difensore dell’impero, soldato al servizio di due imperatori (Onorio ed Arcadio), i cui ritratti sono visibili in rilievo sullo scudo che egli regge in mano.Il gruppo familiare è incorniciato da una delicata struttura architettonica che isola i personaggi in uno spazio privilegiato, mentre la posa frontale e statica, li colloca fuori dal tempo, quasi come apparizioni sacre. Questo tipo di rappresentazione idealizzata e sacrale dei personaggi della corte, rispecchia nella propaganda imperiale la sacralità del potere, voluto da Dio per la salvezza degli uomini.La raffinatezza dell'intaglio, i volumi del corpo che si percepiscono chiaramente sotto le vesti e la naturalezza del ricadere delle pieghe dei panneggi sono elementi ripresi dall'arte più antica, ed appartengono alla cosiddetta "rinascenza teodosiana", un ritorno classicistico collegato alla restauratio dell'epoca d'oro dell'impero voluto da Teodosio.

2) Corona Ferrea: Storia e descrizione - il sacro chiodo

La Corona Ferrea o Corona del Ferro è un'antica e preziosa corona che venne usata dall'Alto Medioevo fino al XIX secolo per l'incoronazione dei Re d'Italia. Per lungo tempo, gli imperatori del Sacro Romano Impero ricevettero questa incoronazione. All'interno della corona vi è una lamina circolare di metallo: la tradizione vuole che essa sia stata forgiata con il ferro di uno dei chiodi che servirono alla crocifissione di Gesù. Per questo motivo la corona è venerata anche come reliquia ed è custodita nel duomo di Monza nella Cappella di Teodolinda.

Storia

In merito alla "Corona Ferrea" precisiamo alcune coordinate storiche: Secondo la tradizione cristiana verso l'anno 324 Elena, madre dell'imperatore Costantino I, fece scavare l'area del Golgota in cerca degli strumenti della Passione di Gesù. Fu rinvenuta quella che venne identificata come la "vera Croce", con i chiodi ancora conficcati. Elena lasciò la croce a Gerusalemme, portando invece con sé i chiodi: tornata a Roma, con uno di essi creò un morso di cavallo, e ne fece montare un altro sull'elmo di Costantino, affinché l'imperatore ed il suo cavallo fossero protetti in battaglia. La storica Valeriana Maspero ritiene invece che la corona fosse il diadema montato sull'elmo di Costantino, dove il sacro chiodo era già presente. L'elmo e il morso, insieme alle altre insegne imperiali, furono portati a Milano da Teodosio I, che vi risiedeva: Sant'Ambrogio li descrive nella sua orazione funebre de obitu Teodosii. Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'elmo fu portato a Costantinopoli, ma in seguito fu reclamato dal goto Teodorico il Grande, re d'Italia, il quale aveva a Monza la sua residenza estiva. I bizantini gli inviarono il diadema trattenendo la calotta dell'elmo. Il "Sacro Morso" rimase a Milano: oggi è conservato nel duomo della città.

Due secoli dopo papa Gregorio I avrebbe donato uno dei chiodi a Teodolinda, regina dei Longobardi, che fece erigere il duomo di Monza; ella fece fabbricare la corona e vi inserì il chiodo, ribattuto a forma di lamina circolare. La tradizione che legava la corona alla Passione di Cristo e al primo imperatore cristiano ne facevano un oggetto di straordinario valore simbolico, che legava il potere di chi la usava a un'origine divina e a una continuità con l'impero romano. La Corona Ferrea fu usata dai re Longobardi, e poi da Carlo Magno (che la ricevette nel 775) e dai suoi successori, per l'incoronazione dei re d'Italia. Indagini storiche più recenti ritengono che la conformazione odierna della corona sia dovuta a interventi databili tra il V e il IX secolo. Essa potrebbe essere stata un'insegna reale ostrogota, passata poi ai Longobardi e quindi ai Carolingi, i quali, dopo averla restaurata, la donarono al Duomo di Monza, chiesa reale fatta erigere da Teodolinda.
Gli imperatori del Sacro Romano Impero venivano incoronati tre volte: una come Re di Germania, una come Re d'Italia, una come Imperatore (quest'ultima corona veniva imposta dal Papa). L'incoronazione con la Corona Ferrea si svolgeva a Milano, nella basilica di Sant'Ambrogio; altre volte tuttavia la cerimonia si svolse a Monza (nel Duomo o nella Chiesa di S.Michele) oppure a Pavia, e saltuariamente in altre città ancora.Tra un'incoronazione e l'altra, la Corona Ferrea risiedeva nel Duomo di Monza, che per questo motivo era dichiarata "città regia", proprietà diretta dell'imperatore, e godeva di privilegi ed esenzioni fiscali. La corona attraversò tuttavia alcune vicissitudini: nel 1248 fu data in pegno all'ordine degli Umiliati, a garanzia di un ingente prestito contratto dal capitolo del duomo per pagare una pesante imposta straordinaria di guerra, e fu riscattata solo nel 1319. Successivamente fu trasferita ad Avignone, allora sede papale, dove rimase dal 1324 al 1345: durante questo periodo fu persino rubata, ma il ladro fu catturato e la refurtiva recuperata.
Papa Innocenzo VI, nel quadro della lotta per le investiture, promulgò nel 1354 un editto con il quale rivendicava il diritto di Monza all'imposizione della Corona Ferrea nel Duomo, subito disatteso.

Descrizione

Il prezioso cimelio è in lega di argento e oro all'80% circa, ed è composto di sei placche legate fra loro da cerniere verticali; ha il diametro di cm 15 e l'altezza di cm 5,5; il peso è di 535 grammi. È adornata di ventisei rose d'oro a sbalzo, ventidue gemme di vari colori e ventiquattro placchette floreali a smalto cloisonné. Le gemme rosse sono granati, viola sono ametiste, il corindone è blu scuro. Altre decorazioni sono in pasta vitrea. La lamina circolare che tradizionalmente si identifica con il Sacro Chiodo corre lungo la faccia interna delle sei placche. La corona è troppo piccola per cingere la testa di un uomo: si ritiene perciò che in origine fosse composta di otto placche invece che sei. La corona è custodita nella cassaforte protetta da due porte. È nella teca dal 1885 per volontà di Umberto I, re d'Italia. Secondo la ricostruzione di Valeriana Maspero, in origine le placche d'oro avevano soltanto la gemma centrale, come si vede in alcune monete che ritraggono Costantino con il suo elmo in testa. Due corone ritrovate nel XVIII secolo a Kazan, in Russia, sono del tutto simili; probabilmente anche la Corona Ferrea fu opera di orefici orientali. Le lastrine colorate con le altre pietre furono aggiunte presumibilmente da Teodorico, il quale fece rimontare il diadema su un altro elmo, in sostituzione di quello trattenuto dai bizantini. Carlo Magno fece poi sostituire alcune delle lastrine che si erano rovinate. L'esame al Carbonio 14 condotto su due pezzetti di stucco ha infatti datato uno di essi intorno al 500, e l'altro intorno all'800. L'aspetto della corona successivo al restauro di Carlo Magno è testimoniato dai documenti dell'incoronazione di Federico Barbarossa: essa non era più montata su un elmo, ma portava solo un archetto di ferro sulla sommità. Essa aveva ancora la dimensione adatta ad essere portata sulla testa. Le due placche mancanti furono probabilmente rubate mentre la corona era in pegno agli Umiliati, che la conservavano nel loro convento di Sant'Agata (nell'attuale piazza Carrobiolo a Monza). I documenti successivi al 1300 infatti la descrivono come "piccola". Nel 1345 essa fu affidata per un secondo restauro all'orafo Antellotto Bracciforte, il quale le diede l'aspetto attuale.


 Il sacro chiodo
L'identificazione della lamina metallica inserita nella corona con il chiodo della Passione di Cristo sembra risalga al XVI secolo. San Carlo Borromeo, che rilanciò la venerazione del Sacro Morso custodito nel duomo di Milano, visitò più volte anche la Corona Ferrea e vi pregò davanti. Nel 1602 Bartolomeo Zucchi affermava con certezza che la corona era il diadema di Costantino e che in essa vi era il sacro chiodo. Un secolo più tardi, però, Ludovico Antonio Muratori esprimeva parere contrario; egli notava tra l'altro che, rispetto alla dimensione di un chiodo romano da crocefissione, la lamina era troppo piccola.Nel frattempo anche le autorità ecclesiastiche esaminarono il problema: finalmente nel 1717 il Papa decretò che, pur in assenza di certezza sull'effettiva presenza del chiodo nella corona, ne era autorizzata la venerazione come reliquia, in base alla tradizione ormai secolare in tal senso.

Nel 1993, la corona è stata sottoposta ad analisi scientifiche, e il verdetto è stato clamoroso: la lamina non è di ferro, bensì d'argento. Secondo alcuni studiosi, essa fu inserita dal Bracciforte nel 1345 per rinsaldare la corona, che era stata danneggiata dal furto di due placche; gli autori cinquecenteschi, perduta memoria di questo intervento, e sapendo dall'orazione di sant'Ambrogio che nella corona era inserito il sacro chiodo, conclusero che doveva trattarsi della lamina, che "per miracolo" non era arrugginita. Altri ritengono invece che la corona sia effettivamente il diadema di Costantino, e che con il sacro chiodo fossero stati forgiati due archetti incrociati che venivano usati per agganciare il diadema all'elmo (e non il cerchio che si trova oggi nella parte interna della corona). Quando i bizantini sganciarono il diadema per darlo a Teodorico, essi trattennero anche gli archetti. L'elmo rimase esposto nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, appeso sopra l'altare, fino al saccheggio veneziano del 1204, dopo di che se ne ignora la sorte. In ogni caso la Chiesa continua ad autorizzare la venerazione delle reliquia, che sarebbe, secondo l'ipotesi dell'archetto dell'elmo, una reliquia di secondo tipo, cioè che deve la sacralità al contatto con una reliquia di primo tipo (oggetto legato direttamente a una figura venerata).


3) Evangeliario di Teodolinda

La legatura dell'Evangeliario di Teodolinda è conservato nel Tesoro della basilica di San Giovanni Battista a Monza. Secondo la tradizione, venne donato a Teodolinda da papa Gregorio I nel 603, come ringraziamento per l'opera di conversione della popolazione longobarda al Cristianesimo. Un'epigrafe in latino incisa sui listelli delle piastre ne ricorda il dono alla basilica di San Giovanni Battista da parte della regina.

Ne resta solo la legatura, composta da due placche in oro decorate da smalti, pietre preziose, vetrine e cammei. Ciascun piatto misura 34,10 x 26,50 cm. Le pietre sono incastonate a freddo, secondo uno schema che ricorda il gusto per la varietà di forme in composizioni simmetriche di epoca tardo-antica. La copertura dell'Evangelario mostra un gusto spiccatamente policromo, con pietre dure e smalti che risaltano sul dominante oro del fondo.

In ciascuna lastra, all'interno di una cornice a sbalzo con fiorellini stilizzati, è racchiusa una croce che ricorda le coeve croci gemmate in lamina d'oro, come la Croce di Agilulfo. La forma è quella della croce latina, con i bracci leggermente svasati alle estremità: al centro ha una pietra levigata rotonda, bordata da un motivo a rilievo, mentre sui bracci sono collocate le pietre preziose alternate a piccole pietre rotonde. Le prime, quadrate ed ovali, sono state scelte in maniera da accostare forme e colori diversi, ma sempre mantenendo la simmetria dei bracci.

Nel campo di sfondo due fasce sottili si trovano perpendicolari a un terzo dell'altezza dei bracci maggiori, e nei quattro sotto-riquadri si trovano cammei di reimpiego e un bordo a "L", riempito con la tecnica della filigrana, girato in modo da suggerire un rettangolo che intersechi la croce. Anche la cornice generale è lavorata a filigrana.





 - PERCORSO MUSEOGRAFICO

A "firmare" la nuova architettura del "Museo Serpero" è Cini Boeri, con l'apporto, per l'immagine coordinata, di Pierluigi Cerri e degli illuminotecnici Serena e Francesco Iannone. Il nuovo museo, direttamente accessibile dall'esterno, è articolato su due livelli modellati al loro interno interpretando il desiderio della committenza di poter contare su di una struttura il più flessibile e polivalente possibile che, oltre alle collezioni permanenti, potesse ospitare anche mostre temporanee, eventi musicali, conferenze e incontri.A farsi integralmente carico della complessa opera sono stati Franco e Titti Gaiani, mecenati monzesi che hanno voluto garantire una nuova casa ai tesori accumulati durante i millecinquecento anni di storia della Cattedrale di Monza.

Il percorso del nuovo Museo - che è tra i più importanti al mondo del suo settore -inizia dalla stessa cattedrale ed esattamente dalla cappella nella quale è custodita la Corona Ferrea, con cui furono incoronati imperatori e re, da Federico Barbarossa a Napoleone Bonaparte.
Lo straordinario complesso degli oggetti d'oro e d'argento donati dalla regina Teodolinda alla fondazione della chiesa longobarda e da Papa Gregorio Magno al battesimo del figlio Adaloaldo (603), si è arricchito nel tempo con ulteriori donazioni da parte di importanti regnanti e uomini di chiesa, quali Berengario I, re d'Italia nell'888, e Ariberto da Intimiano, arcivescovo di Milano dal 1018. Il complesso di oggetti venne trasferito dalla sacrestia nel quale giaceva da anni al Museo Filippo Serpero, spazio espositivo voluto dalla Parrocchia nel 1963.
La nuova area espositiva è di complessivi 1400 mq e trasforma il "Serpero" nel più vasto e complesso percorso di visita che confluisce in un unico grande vano.

La scelta e l'ordinamento delle opere prevede due nuclei espositivi ben armonizzati tra loro, anche se strutturalmente distinti, che riflettono la ripartizione del patrimonio in altrettante sezioni, assumendo come spartiacque il 1300, anno in cui la famiglia Visconti decide di rifondare l'edificio voluto da Teodolinda nel VI secolo, in occasione del primo Giubileo di papa Bonifacio VIII. Pertanto, nella prima parte del percorso sono esposte le opere provenienti dalla prima basilica, mentre nella seconda è testimoniata la storia del Duomo e del Tesoro dal Trecento ad oggi.
Due vicende che continuano ad intrecciarsi ancor oggi, anche grazie all'importanza storica e simbolica nei secoli sia della regina Teodolinda sia della Corona Ferrea, uno dei simboli religiosi e politici dell'occidente almeno fino al XX secolo.
Il percorso è stato ripartito in quattro grandi sezioni. Mantenuto l'asse cronologico come presupposto essenziale, il patrimonio è stato aggregato secondo "temi forti", che aiutassero a contestualizzare gli oggetti, a legarli tra loro e a metterli in relazione con il Duomo e con il tessuto urbano.

Quindi, dopo la parte dedicata al tesoro medievale, la prima sezione ha per oggetto l'età dei Visconti. Ad accogliere il visitatore è il ritratto di Giovanni Visconti, l'arcivescovo e signore di Milano che rese possibile la restituzione del Tesoro al Duomo dopo il trasferimento di quest'ultimo ad Avignone in conseguenza del trasferimento della sede papale. Si passa poi all'opera di Matteo da Campione, l'architetto al quale spetta - tra 1350 e 1396 - la rielaborazione della facciata, la realizzazione del battistero oggi scomparso e quella del pulpito per le incoronazioni imperiali che tuttora campeggia nella navata centrale. Il museo presenta una scelta delle lastre figurate a traforo e le celebri "testine" provenienti dai 'gugliotti' della facciata. Il grande affresco della Messa di San Michele introduce il tema della "fortuna" di Teodolinda nel Trecento monzese e del mito delle incoronazioni imperiali. Accanto al dipinto sono collocati il frammento di Crocifissione attribuito a Michelino da Besozzo e i due capolavori dell'oreficeria tardogotica lombarda: il calice di Gian Galeazzo Visconti e la statuetta devozionale in argento di San Giovanni Evangelista, che ripete in scala minore il grande San Giovanni in rame proveniente anch'esso dalla facciata.

La seconda sezione - dal dominio degli Sforza alla metà del Cinquecento - presenta una sceltissima selezione di pitture su tavola - tra le quali svetta il polittico della Madonna in trono -; "L'ancona della Vergine", uno dei più singolari incunaboli lombardi della pittura su tela, e il ricostituito polittico di terracotta di S. Pietro Martire. Una speciale attenzione è stata riservata alla grande vetrata del rosone di facciata, realizzato alla fine del Quattrocento e sostituito nel XIX, oggi ricomposto nel museo al centro di una parete di ben 12 metri di altezza.
Tra le testimonianze più straordinarie di questo periodo, anche in termini quantitativi, sono probabilmente le ricche serie di arazzi: i due grandi capolavori da cartoni di Arcimboldi con le storie di San Giovanni e i Millefleurs fiamminghi recentemente restaurati dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

La terza sezione è dedicata all'età dei Borromei, dei Durini e degli Asburgo e quindi al fiorire della grande decorazione barocca e tardobarocca. Accanto ai bozzetti del Legnanino e del Borroni è così ordinata una selezionata ed esemplificativa quadreria, mentre in bacheche sono disposti gli oggetti liturgici più significativi.

La quarta e conclusiva sezione è aperta dai bozzetti in gesso realizzati da Angelo Pizzi su disegno di Andrea Appiani per il ciborio neoclassico dell'altare maggiore, realizzato tra lo scadere della dominazione asburgica e la prima età francese quando il Tesoro prende la via di Parigi (i codici verranno tutti rilegati in marocchino rosso con le insegne di Napoleone) e la Corona Ferrea torna simbolo delle antiche incoronazioni imperiali, prima con Napoleone e poi con Ferdinando I d'Asburgo.
A sottolineare il legame con il presente, ampio spazio è stato dato sia all'arte contemporanea che alla recenti donazioni, a partire dal riordino degli avori medievali della collezione Durini-Trotti o all'esposizione della Crocifissione lignea concessa dai Fossati. Tra le opere di artisti contemporanei esposti nel nuovo Museo, la Crocifissione di Lucio Fontana, il Cristo Risorto di Luciano Minguzzi e i cartoni di Sandro Chia per le vetrate dedicate a Sant'Ambrogio e a San Carlo Borromeo, vetrate che saranno collocate in Duomo in occasione dell'apertura del nuovo Museo.



 - Il PALAZZO COMUNALE
Il Palazzo Comunale, detto "Arengario" è la testimonianza architettonica della comunità monzese nel Medioevo.
La data di costruzione è sconosciuta; ma gli storici attraverso indagini stilistiche e raffronti sistematici con edifici che si possono ritenere coevi, l'hanno collocata tra il quarto ed il sesto decennio del Duecento.
Anche se di dimensioni più modeste, il monumento monzese è assai simile a quello Milanese del Broletto nuovo, costruito dal 1228 al 1233.
In origine era costituito da un porticato al piano terreno ed a un'unica grande aula al piano nobile mentre la torre posta nord-est fu aggiunta successivamente.
Gli spazi così ideati si presentavano congeniali alle esigenze della vita sociale della comunità del tempo.
Infatti al piano nobile si tenevano le riunioni del Consiglio Comunale e le assemblee dei mercanti, categoria emergente nella vita sociale ed economica medioevale.
Nel portico invece si svolgeva il mercato, la cui funzione è rimasta invariata fino alla metà del secolo scorso.
Il corpo principale è a pianta rettangolare con i lati rispettivamente di m. 30,30 e di m. 12,40.
Il portico è costituito da 18 pilastri in pietra, posti su tre file di sei secondo l'asse nord-sud (una per ognuno dei lati maggiori ed una nel mezzo) ed ordinati a tre per volta nel senso est-ovest. Sui pilastri sono impostati archi a sesto acuto in muratura di mattoni, sopra i quali gravano le mensole scolpite, che reggono le travi lignee dell'impalcato al piano nobile.
L'intera costruzione, eccezione fatta per i pilastri lapidei, è in muratura di mattoni, posti in opera secondo l'apparecchio gotico, consistente nel disporre gli elementi in successione: uno di testa e due di fianco.
Il tetto a capanna è sostenuto capriate a vista in legno.
Sul fronte sud è posta la "Parlera" loggetta aggiunta all'edificio poco prima del 1380 dalla quale venivano letti i decreti del Comune.
Essa è dotata di un parapetto costituito da lastre marmoree formellate, con al centro della parete frontale un leggio sporgente.
Il piano è sorretto da tre beccatelli a tre mensole, ordinate con lunghezza a scalare.
L'accesso originario avveniva tramite una doppia scala posta sul fronte est (della quale si possono ancora oggi scorgere le tracce, che conduceva alla porta attualmente visibile al centro di tale facciata.
Dopo l'inizio del '300 venne aggiunta la torre sul lato nord: costruzione in muratura di mattoni a pianta pressoché quadrata, aperta, a quota di circa 27 metri, da una cella campanaria con due monofore a sesto acuto per ogni lato, sopra la quale si delinea il giro di ronda, delimitato da merli ghibellini e sormontato da una cuspide ottagonale con puntale in sommità a quota di 44 metri dal piano stradale.

L'Arengario di Monza si inserisce all'interno della tipologia di Palazzo comunale diffusasi in Italia nel corso del XIII secolo. Il tipo del Palazzo comunale italiano è un edificio ad unica sala aperta da grandi finestre a bifora, poggiante su un ampio porticato e con scala esterna che mette in comunicazione con la piazza principale, dove spesso - ma non sempre - si affaccia anche la sede del potere religioso, la Cattedrale. Nel primo Duecento e con particolare diffusione nel Nord dell'IItalia, dove la coscienza civica dei comuni era stata temprata dalle lotte contro l'Impero nel secolo precedente, vengono costruiti secondo questi criteri il Broletto di Milano (1228-1233), il Broletto di Como (1215) e il Palazzo della Ragione di Bergamo (1199). La tipologia poteva essere resa più complessa attraverso un edificio costruito a più piani ed apparire più massiccio e monumentale, come a Piacenza (1280) o Perugia con il suo Palazzo dei Priori (1293-1297).



Questo lavoro compilativo è il frutto non esaustivo e non articolato di diverse fonti: pertanto non è da considerarsi un testo dell'autore di questo blog ma un semplice "collatio" per uso esclusivamente didattico. 

Vince